Ci sono storie che, a conoscerle, si può rimanere increduli per l’assurdità che le caratterizza. Sono storie nelle quali non riesci a trovare un filo narrativo senza lasciarti distrarre da una domanda tanto banale quanto drammatica: è davvero accaduto? Si può davvero morire così? Si può morire per un maledettissimo litro di olio lubrificante? Sono storie che tolgono il fiato, perché raccontano di vite spezzate da una lucida follia criminale che sembra non lasciare il minimo spazio alla razionalità. Storie, come quella di Francesco Giorgino, che, a conoscerle, si può davvero far fatica a crederle vere. Eppure, è proprio così che è andata.
Francesco era nato a Cerignola, in provincia di Foggia, nel 1956. In Puglia era cresciuto per oltre oltre 20 anni. Fino a quando, durante un viaggio a Milano, la vita lo mise di fronte a una svolta. Si rese conto così, per questa circostanza del destino, che la sua strada sarebbe stata diversa. A spingerlo in questa direzione fu una giovane ragazza calabrese, originaria di Lazzaro, una piccola frazione del Comune di Motta San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria. Domenica Diano colpì immediatamente Francesco. I due si innamorarono perdutamente. Un amore così grande da indurre Francesco a compiere una scelta importante, come quella di lasciare la sua terra per inseguire il suo sogno d’amore, giù fino alla punta estrema d’Italia. A 25 anni lasciò Cerignola per trasferirsi a Lazzaro e costruire lì la sua famiglia. Domenica divenne ben presto sua moglie e lui si adattò senza particolari difficoltà alla sua nuova casa. Lo affascinava la Calabria, di cui amava soprattutto il mare. E poi quel sogno d’amore gli aveva regalato, nel giro di pochi anni, oltre che una moglie di cui era follemente innamorato, anche due splendidi figli: Salvatore Maurizio e Annamaria. Era un padre sempre presente, premuroso e affettuoso. Si sentiva appagato Francesco, negli affetti familiari come nel lavoro. Aveva messo su un’officina meccanica che gli consentiva una vita tranquilla e serena. Un lavoro semplice, ma che svolgeva con onestà e spirito di sacrificio. Salvatore Maurizio era spesso con lui in officina. Lo divertiva aiutare suo padre a smontare, pulire, sistemare e rimontare pezzi di motore. Insomma, nulla che avrebbe neanche lontanamente fatto presagire che la serenità di questa famiglia normale, onesta e perbene sarebbe stata distrutta da una tragedia senza senso.
Il 21 febbraio del 1996
Il pomeriggio del 21 febbraio del 1996, Salvatore Maurizio, all’epoca quattordicenne, non era riuscito ad andare con suo padre in officina. I compiti lo avevano trattenuto a casa, insieme a sua sorella Annamaria, di sei anni più piccola di lui. Non se ne ebbe a male. Sapeva che, una volta finiti i compiti, avrebbe raggiunto il suo papà. Sua madre e sua sorella lo avrebbero accompagnato, come spesso facevano quando non riusciva a sbrigare i suoi impegni scolastici in tempo per muoversi direttamente con Francesco. Nell’enormità della tragedia che si sarebbe consumata di lì a poco, questa fu forse una fortuna. Questa casualità, infatti, impedì a Salvatore Maurizio di assistere all’assurdo omicidio di suo padre. Quando Domenica e i bambini arrivarono in officina, intorno alle 18.00, la follia criminale di Giovanni Scappatura si era già abbattuta sulla vita innocente di questo giovane e onesto lavoratore. I tre riuscirono a raccogliere solo l’ultimo respiro di Francesco, freddato da diversi colpi di pistola calibro 7.65 esplosi dal ras di Lazzaro, Scappatura appunto, considerato vicino alla cosca Barreca.
Accadde tutto in pochi minuti. Scappatura era al lavoro nei pressi della sua abitazione, distante appena pochi metri dall’officina di Francesco. Maneggiava una motosega, quando si rese conto che l’attrezzo che stata utilizzando aveva bisogno di essere lubrificato. Chiese allora al suo aiutante, Vincenzo Benedetto, di andare a prenderlo nell’officina di Francesco. Andare a prenderlo, non a chiederlo. Ma Francesco non accontentò quella richiesta, semplicemente perché in quel momento non ne aveva a disposizione e forse anche infastidito da quella pretesa. Scappatura non si arrese: a lui non si poteva dire no, a prescindere dalle ragioni del rifiuto. Così rimandò Benedetto a insistere. La risposta fu nuovamente negativa. Nell’assurda e incomprensibile mentalità criminale di questo boss di quartiere, quel doppio diniego fu intollerabile. Afferrò la pistola e, con le sue gambe, si diresse in officina, deciso a farsi valere e a lavare col sangue l’affronto che pensava di aver subito. Senza nemmeno un momento di esitazione, senza prestare la minima attenzione al suo aiutante che pure sembra abbia provato a farlo desistere, esplode diversi colpi all’indirizzo di Francesco, colpito dapprima alle spalle, poi girato di faccia e ucciso con un colpo di grazia al petto. Una violenza brutale, folle, insensata. Così, in una pozza di sangue, lo trovarono Domenica, Salvatore Maurizio e Annamaria, arrivati appena in tempo per raccoglierne l’ultimo respiro. 40 anni appena.
Vicenda giudiziaria
Ciò che accadde in quei drammatici minuti fu subito chiarissimo. E del resto, l’aiutante di Scappatura, Vincenzo Benedetto, decise di testimoniare e di collaborare con gli inquirenti per ricostruire nei minimi dettagli l’accaduto, prima di lasciare per sempre la sua terra. Ma nonostante la ricostruzione precisa, che attribuiva con chiarezza la responsabilità di quel folle omicidio a Giovanni Scappatura, peraltro all’epoca sottoposto alla misura della sorveglianza speciale, l’assassino di Francesco non ha mai scontato un solo giorno di galera. La condanna all’ergastolo è arrivata, ma lui si è dato alla latitanza, insieme a sua madre. Dal maggio del 1996, di lui si è persa ogni traccia. Nell’ottobre del 2010, è stato arrestato Marco Bruno De Salvo, un pescatore di 64 anni, responsabile di avere garantito a lungo il sostentamento di Scappatura, gestendo i conti correnti di sua madre. Il boss, affiliato con un ruolo di primo piano al clan mafioso dei Barreca, è inserito nell’elenco dei 100 latitanti più pericolosi a livello nazionale.
L’immagine Francesco riverso sull’asfalto non ha mai smesso di accompagnare Domenica e i suoi figli. Non è stata una vita facile quella di questa famiglia dopo l’omicidio. La mancanza di quest’uomo premuroso e onesto ha segnato profondamente gli anni successivi. Eppure Domenica, nonostante i problemi e la sofferenza, non si è arresa e ha continuato a chiedere giustizia, denunciando spesso di essere stata abbandonata anche da uno Stato che non ha concesso il riconoscimento dello status di vittima di mafia a suo marito, per un ritardo nella presentazione della richiesta.
Memoria viva
Il nome di Francesco è ricordato, insieme alle oltre 1000 vittime innocenti delle mafie che ogni anno in occasione del 21 marzo, la Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, riecheggiano in tanti luoghi. Per noi Francesco ha un vero e proprio diritto al ricordo, un diritto che restituisce “dignità” a ogni nome che ricordiamo, che rappresenta la promessa a Francesco che non dimenticheremo la sua storia, i suoi progetti di vita, portando con noi i suoi sogni e rendendoli vitale pungolo del nostro impegno quotidiano.
Il dolore non si placa e il senso di impotenza per questa ingiustizia, che continuiamo a subire giorno dopo giorno, certamente non aiuta. La nostra vita non è stata e non è semplice. Ciò è immaginabile, ma non è per ispirare pietà che ho voluto condividere il ricordo di mio marito. L’associazione Libera mi ha insegnato che la Memoria è un valore prezioso per ogni comunità in cammino verso il Riscatto e la Speranza. Nonostante le difficoltà quotidiane economiche e non solo, nonostante i sacrifici, le rinunce, i seri problemi di salute, con i miei figli e per i miei figli vado avanti e tengo vivo il ricordo del nonno di tre nipoti e del quarto in arrivo. Guardando a loro, nel buio trovo la luce e il coraggio di non desistere e cerco di indicare anche ai miei figli, segnati per sempre, una strada diversa dalla rassegnazione.