“Il figlio non pagherà per l'iniquità del padre, e il padre non pagherà per l'iniquità del figlio” (Ezechiele 18,20). La Bibbia, quella stessa Bibbia ritrovata nei bunker di tanti mafiosi e utilizzata per ostentare una religiosità di facciata del tutto incompatibile con qualsiasi sentimento cristiano, ci consegna tutta la disumanità e l’ingiustizia di questa storia. Una storia che forse ha contribuito a svelare per sempre il vero volto di Cosa nostra, di un codice d’onore che di onorevole non ha mai avuto niente.
Il destino di questo bambino è indissolubilmente e ingiustamente legato al suo cognome, a quel padre le cui colpe sono ricadute sul figlio. A 12 anni non si può che avere lo sguardo rivolto al futuro: sogni, speranze, passioni. Quella di Giuseppe erano i cavalli. Li amava profondamente. Ed è così che, in sella a un cavallo, si è fermata la sua immagine nella memoria collettiva.
Il padre di Giuseppe era un mafioso. Apparteneva alla famiglia di Altofonte, da sempre vicina ai corleonesi di Totò Riina. Fu arrestato nel giugno del 1993, accusato di aver commesso una decina di omicidi. Fu tra i primi collaboratori di giustizia e fornì agli investigatori informazioni preziose in merito alla Strage di Capaci e all’omicidio dell’imprenditore mafioso Ignazio Salvo, ucciso il 17 settembre del 1992. La sua decisione di collaborare con la giustizia fu la scintilla che innescò il tragico destino di questo bambino che amava i cavalli.
Giuseppe era nato il 19 gennaio del 1981 a Palermo. Era cresciuto a San Giuseppe Jato, dominio della famiglia Brusca, cosca mafiosa storicamente tra le più vicine ai corleonesi. Nelle ampie distese di campagna della Vallo dello Jato, Giuseppe aveva coltivato la sua passione per l’equitazione. E fu proprio in un maneggio di Piana degli Albanesi che il 23 novembre del 1993 fu rapito con l’inganno. Gli uomini di Giovanni Brusca gli si presentarono davanti travestiti da poliziotti. Giuseppe pensò subito che quegli uomini in divisa erano lì per consentirgli di vedere suo padre, che era già sotto protezione in una località segreta a seguito della sua decisione di collaborare con la giustizia. Ma quegli uomini non erano poliziotti. Le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che partecipò al rapimento, hanno fatto luce su quello che accadde quel giorno e negli oltre due anni successivi. 26 mesi. 779 giorni.
Il rapimento
Quel maledetto 23 novembre Giuseppe fu preso a forza, legato e infilato nel cassone di un Fiorino. Fu condotto in un magazzino di Lascari e poi consegnato ai suoi carcerieri. Durante la prigionia fu spostato tra il palermitano, il trapanese e l’agrigentino, prima di essere rinchiuso, nel 1995, in un casolare nelle campagne di San Giuseppe Jato.
Nei giorni seguenti il rapimento, la sua famiglia lo cercò ovunque, a cominciare dagli ospedali della zona. Ma il primo dicembre fu chiaro a tutti cosa fosse accaduto. Alla famiglia arrivò un biglietto inequivocabile: "Tappaci la bocca”. Insieme al biglietto, due foto del piccolo Giuseppe con in mano un quotidiano datato 29 novembre. Il 14 dicembre, la madre di Giuseppe, Francesca Castellese, denunciò la scomparsa di suo figlio. La sera stessa, al nonno arrivò un altro messaggio inquietante “Il bambino ce l'abbiamo noi, non andare ai carabinieri se tieni alla pelle di tuo nipote”. Successivamente, allo stesso nonno - si chiamava Giuseppe Di Matteo anche lui - fu mostrata anche una foto del ragazzo: “Devi andare da tuo figlio e farci sapere che, se vuole salvare il bambino, deve ritirare le accuse fatte a quei personaggi, deve finire di fare tragedie”. Gli dissero così. E fu la conferma definitiva di quanto era apparso subito chiaro. Santino doveva smetterla di collaborare. Il destino di Giuseppe era legato a lui e a quello che avrebbe deciso. Cosa nostra stava usando la vita di un bambino di 12 anni per vendicarsi di un pentito.
Le ricerche del bambino non ebbero alcun risultato. Ci provò addirittura direttamente suo padre Santino, che nell’ottobre del ’95 sparì dalla località segreta dove era nascosto nell’estremo ma vano tentativo di trovarlo. Alla fine, decise di non fermarsi: avrebbe continuato ad aiutare i magistrati.
L’11 gennaio del 1996
Il giorno della pronuncia della Corte di Cassazione sull’omicidio di Ignazio Salvo, che condannò all’ergastolo Brusca, il boss era davanti alla televisione. Si infuriò. Fu in quell’istante che le colpe del padre finirono per essere pagate dal figlio. Il boss diede a Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo l’ordine di ammazzare Giuseppe. Il piccolo fu strangolato con una corda e poi letteralmente cancellato, sciolto in un fusto di acido nitrico. Poi i mafiosi - raccontano i pentiti - se ne andarono a dormire. Come se nulla fosse accaduto. Era l’11 gennaio del 1996. Giuseppe avrebbe compiuto 15 anni otto giorno dopo.
Vicenda giudiziaria
Le dichiarazioni di Spatuzza hanno consentito lo svolgimento di diversi processi che hanno portato a decine di condanne. Il 16 gennaio 2012 sono stati condannati all'ergastolo, nel quarto processo sulla morte del bambino, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano - tra i mandanti del sequestro insieme a Brusca - Luigi Giacalone, Francesco Giuliano e Salvatore Benigno, che invece ne curarono l’organizzazione. Il 18 marzo 2013 le condanne sono state confermate anche in appello. Nel medesimo processo, è stato condannato a 12 anni lo stesso Gaspare Spatuzza. Negli altri processi sono stati condannati, tra gli altri, anche Cristoforo Cannella, che guidava l’auto il giorno del rapimento, e Benedetto Capizzi, che procurò il luogo dove il bambino fu rinchiuso subito dopo il sequestro. Condanne sono arrivate anche per Leoluca Bagarella, Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo. Fu quest’ultimo a raccontare passo passo i dettagli più macabri dell’uccisione del bambino.
È colpa sua se io ho perso il mio bambino. Se ha sbagliato a pentirsi? Ha sbagliato ad essere mafioso. Ha sbagliato prima.
Memoria viva
A Giuseppe Di Matteo sono dedicati il Presidio di Libera a Saluggia, in provincia di Vercelli, e quello della Valle dello Jato, nella sua terra. Poco lontano, a Portella della Ginestra, a Giuseppe è intitolato il Centro Ippico sorto sui terreni confiscati ai boss di Cosa nostra, annesso all’Agriturismo gestito dalla Cooperativa Placido Rizzotto Libera Terra.
Nel novembre del 2008 è stato inaugurato il Giardino della memoria a San Giuseppe Jato, proprio nel luogo del bestiale omicidio di Giuseppe, ed è a lui intitolato.
Il film "Sicilian Ghost Story" di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia del 2017 racconta le vicende che portarono al rapimento di Giuseppe e al suo omicidio. I registi creano una storia in equilibrio tra cronaca nera, la realtà, e favola cupa, la fantasia.
Nel 2017 la casa editrice Mesogea ha pubblicato il libro di Martino Lo Cascio "Il giardino della memoria. I 779 giorni del sequestro Di Matteo". E' del 2018 la pubblicazione di Mednet "Ho sconfitto la mafia. Io sono vivo!" di Marina Paterna.
Luoghi che rendono viva la memoria del bambino che amava i cavalli, dando testimonianza concreta di un impegno che genera cambiamento e speranza.
Nel 2021 il Comune di San Pietro in Casale (BO) ha intitolato il proprio parco urbano al piccolo GIuseppe.
Giuseppe non c'è e tu che fai? È quello che chiede Luna nel film Sicilian Ghost story.
Giuseppe non c'è e io che faccio?
Testimonio, commemoro, vivo e cerco di essere una persona migliore.
Racconto, offro le mie orecchie e i miei occhi a Giuseppe e cerco i modi per mantenere viva la memoria.
Ogni tanto smarrisco la strada e poi penso a quella che abbiamo percorso con Giuseppe e riparto.