Il 29 giugno del 1982 la nazionale di calcio italiana allenata da Bearzot affrontò l’Argentina in una partita storica. La prima partita della seconda fase dei mondiali di Spagna del 1982. Sembrava un’impresa impossibile, con gli azzurri che venivano da due deludenti pareggi e i sudamericani, detentori del titolo, che invece parevano lanciati in un’altra corsa vincente. Finì invece con la vittoria dell’Italia per 2 a 1, grazie alle reti di Tardelli e Cabrini. Il torneo finirà con la vittoria degli azzurri in finale sulla Germania Ovest e la conquista del terzo titolo mondiale. Un’estate indimenticabile.
Ma quel 29 giugno, lontano dagli stadi spagnoli, nella provincia palermitana, accadde anche qualcos’altro. Qualcosa che cambiò per sempre la vita di una normalissima famiglia siciliana. La famiglia di Antonino Burrafato.
Antonino era nato a Nicosia, in provincia di Enna, il 13 giugno del 1933. In quel 1982 lavorava ormai già da una ventina d’anni nel carcere di Termini Imerese, all’epoca conosciuto come carcere “dei Cavallacci”.
Era vicebrigadiere del corpo degli Agenti di Custodia e dirigeva l’ufficio matricola. Un ruolo delicato, a capo dell’ufficio che di fatto gestisce tutte le comunicazioni che intercorrono tra i detenuti e l’autorità giudiziaria. È qui che avviene l’identificazione dei detenuti, si gestiscono le pratiche e si registrano tutti i movimenti.
Antonino svolgeva le proprie funzioni con un altissimo senso del dovere. Era un agente integerrimo e incorruttibile, estremamente scrupoloso e rigoroso nell’applicazione del regolamento. Regole che, naturalmente, valevano per tutti, indistintamente. Anche per quei detenuti di “peso”, nei confronti dei quali qualcuno pure era abituato a chiudere un occhio. Non lui, che però, con chi si comportava bene, era capace anche di grande comprensione e di grandi scatti di umanità.
Del resto, prima di essere un buon agente, era un buon uomo Antonino. Una persona mite, disponibile, generosa, a casa come sul lavoro. Era padre di un ragazzo non ancora maggiorenne, Salvatore, frutto del suo amore per Domenica, la donna di cui si era innamorato e che aveva deciso di sposare. Una famiglia normalissima, che quel 29 giugno 1982 verrà sconvolta per sempre dalla violenza di Cosa nostra.
Nel 1974 la sorella del boss Leoluca Bagarella, spietato assassino legato ai Corleonesi, aveva sposato in segreto Totò Riina, seguendolo nella latitanza. “Don Luchino”, autore di centinaia di spietati omicidi, in quel 1982 era già detenuto in carcere, arrestato nel settembre del 1979, due mesi dopo l'omicidio del commissario Boris Giuliano.
La notizia della morte del padre gli valse la possibilità di far visita ai suoi familiari. Per questa ragione il boss transitò proprio nel carcere di Termini Imerese. Ed è qui, in questo frangente, che si consuma l’episodio che costerà la vita al vicebrigadiere Burrafato. Proprio in quei giorni, infatti, fu emessa, nei confronti di Bagarella, l’ennesima ordinanza di custodia cautelare. Circostanza che, a rigore, non avrebbe più consentito la concessione del permesso.
Toccò ad Antonino procedere alla notifica e comunicare la notizia al boss, il quale, ovviamente, non la prese affatto bene. I due discussero animatamente e Bagarella promise vendetta. Qualcuno, del resto, aveva lasciato intendere che quell’estremo rigore nell’applicazione del regolamento fosse più che altro legato ad un’iniziativa personale del vicebrigadiere. Che invece aveva semplicemente applicato la legge.
Il 29 giugno del 1982
La vendetta arrivò pochi giorni dopo, nel pomeriggio di quel 29 giugno. Erano circa le 15.30 quando, lasciata la sua abitazione, Antonino stava facendo ritorno in carcere per il suo turno di lavoro a bordo della sua utilitaria. Conosceva la spietatezza di Bagarella e dunque le sue minacce certamente lo avevano turbato. Ma non fino al punto di impedirgli di fare bene il suo lavoro o di distorglierlo dai suoi doveri.
L’azione del commando di fuoco -quattro persone armate di fucili e pistole- fu fulminea. Affiancarono la macchina di Antonino e gli spararono addosso. Il vicebrigadiere si accasciò, colpito alla testa e al torace da diversi proiettili, mentre la sua macchina andava a schiantarsi contro un muretto, in piazza Sant’Antonio, a poche decine di metri dal portone di ingresso del carcere.
Soccorso da alcuni passanti, morì mezz’ora più tardi all’ospedale Cimino di Termini Imerese, dove era stato trasportato nel vano tentativo di impedire che le gravissime ferite riportate lo uccidessero. Aveva 49 anni. Suo figlio Salvatore di anni ne aveva 17.
La vicenda giudiziaria
Nell’immediatezza del fatto, gli inquirenti non riuscirono a dare una svolta alle indagini, sulle quali pesarono anche alcuni tentativi di depistaggio. Tra questi, addirittura, una telefonata di rivendicazione delle Brigate Rosse, rivelatasi palesemente infondata. “Abbiamo giustiziato Burrafato, boia dell’Asinara”, dissero al telefono. Ma Antonino all’Asinara non aveva mai prestato servizio.
Fu solo un attento ufficiale dei Carabinieri, il capitano Gennaro Scala, ad intuire che dietro quell’omicidio non potesse non esserci la mano di Cosa nostra. Intuizione che il militare mise nero su bianco in un rapporto, che però non ebbe seguito.
Ci sono voluti quattordici anni per appurare che invece quell’intuizione era assolutamente fondata. Nel luglio del 1996 il collaboratore di giustizia Salvatore Cocuzza si autoaccusa dell’omicidio e dichiara di essere stato uno dei componenti del commando di fuoco che aveva ucciso Burrafato, chiamando in correità Giuseppe Lucchese, Antonio Marchese e Pino Greco “Scarpuzzedda”. A decretare la morte del vicebrigadiere era stato direttamente Leoluca Bagarella, desideroso di vendetta per lo “sgarbo” ricevuto dall’irreprensibile agente di custodia.
Cocuzza è stato condannato per questo delitto a 10 anni di carcere. La Corte di Assise di Palermo, Sezione Prima, all’udienza del 3 ottobre 2005 ha condannato all’ergastolo Marchese e Greco. I familiari si sono costituiti parte civile nel processo.
Memoria viva
Poco più di un anno più tardi, Antonino è stato insignito della Medaglia d’oro al merito civile. A lui è stato inoltre intitolato il carcere di Termini Imerese, dove aveva prestato servizio per venti lunghi anni.
Nel 2002, il figlio Salvatore –insieme a Vincenzo Bonadonna e Nicola Sfragano– ha dato alle stampe il libro “Burrafato, un delitto dimenticato”, ennesima tappa di lungo un percorso di memoria e impegno, nel tentativo di non lasciar cadere l’oblio sulla storia di suo padre.
Sulla sua vicenda, nel 2008, gli allievi del corso di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore di Termini Imerese hanno realizzato un film-inchiesta dal titolo “Antonino Burrafato, una storia vera”.
Il 29 giugno del 1982 ero uno dei tanti ragazzi italiani che aspettava la partita del mondiale. Oggi, che sono un uomo maturo, a mio padre vorrei parlare di me, della mia famiglia, di mia figlia Marta.
Il desiderio umanissimo di un figlio che vorrebbe rendere partecipe il genitore degli errori e dei successi. Mi piacerebbe sedermi a un tavolino del bar con lui, noi due soli, di fronte al mare di Termini Imerese, che lui amava tanto. Insieme, per parlare di tutto e di niente, come possono fare soltanto un padre ed un figlio.