Quando, il 19 febbraio del 1986, prese il via a Palermo, grazie al lavoro del pool antimafia, quello che poi sarebbe passato alla storia come il più grande processo penale mai celebrato al mondo, nell’aula bunker dell’Ucciardone erano presenti moltissimi dei 475 imputati, il gotha di Cosa nostra. Nell’aula, costruita in tempi da record appositamente per ospitare un processo di tali proporzioni, c’erano anche circa 200 avvocati e i familiari delle vittime cosiddette “eccellenti” della mafia siciliana, quei servitori dello Stato barbaramente assassinati da Cosa nostra. Con loro, due donne con alle spalle una storia molto diversa ma con lo stesso dolore e la stessa sete di giustizia. Una di loro era Michela Buscemi. Salvatore e Rodolfo, due dei suoi fratelli, erano stati uccisi anni prima e per loro Michela non aveva esitato a chiedere la costituzione di parte civile. Anche a costo di essere rinnegata da tutta la sua famiglia di origine.
Una famiglia numerosa quella di Michela, primogenita di 10 figli, cresciuti in un ambiente difficile e in un contesto di disagio e povertà che ne aveva fortemente condizionato la vita. Ma Michela è una co-protagonista di questa storia, così come lo è Salvatore Totò Buscemi. Le loro storie sono così strettamente intrecciate a quella di Rodolfo da rendere estremamente complicato il tentativo di un racconto che provi a isolarli nella loro individualità. Perché Rodolfo è morto per scoprire la verità su Totò e Michela oggi continua a combattere per rendere viva la memoria di entrambi.
Totò era il quarto dei fratelli e delle sorelle Buscemi. Aveva 28 anni e quattro figli piccoli quando, il 5 aprile del 1976, era stato assassinato davanti agli occhi di un altro fratello, Giuseppe, perché aveva osato “infilarsi” nel giro di contrabbando delle sigarette senza chiedere il permesso ai boss di Sant’Erasmo, il quartiere di Palermo dove viveva. Rodolfo non si era arreso alla violenza mafiosa e, soprattutto, al futuro di oblìo e mancanza di giustizia cui sembrava destinato suo fratello. Era ossessionato dall’esigenza di conoscere la verità, di sapere chi e perché avesse ucciso suo fratello Totò sparandogli in faccia. La viveva come una battaglia personale e lui l’avrebbe condotta fino in fondo, costi quel che costi.
Quando Totò era stato ucciso, Rodolfo viveva a casa con sua sorella Michela, studiava per diventare un geometra. Di giorno lavorava con il marito di Michela come muratore e la sera frequentava le lezioni e studiava. Desiderava a tutti i costi diplomarsi per avere un futuro diverso, un lavoro, costruire una sua famiglia e avere dei figli, a cui regalare una vita diversa dalla sua. La fatica non lo spaventava, lui che era il terz'ultimo di dieci figli sapeva benissimo che avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche per cambiare la sua vita. Ma l'omicidio di suo fratello lo segnò in maniera indelebile.
Fu così che, deciso a conoscere la verità sull’omicidio del fratello, Rodolfo decise di trasferirsi proprio a Sant’Erasmo, per svolgere sul posto la sua personale indagine. All’epoca aveva già una figlia di due anni e sua moglie Rosetta, poco più che ventenne, era in attesa di un altro bambino. Rosetta era la sorella di Benedetta, la vedova di Salvatore Buscemi. L'aveva conosciuta a casa di suo fratello Totò, casa che aveva iniziato a frequentare con più assiduità per fare domande a Benedetta, per cercare di capire chi potesse aver voluto la morte del fratello. E se ne era innamorato, avevano addirituttura fatto la fuitina pur di sposarsi. Rosetta era anche la sorella di Matteo Rizzuto. Questo ragazzo, il cui destino si incrocerà tragicamente a quello di Rodolfo, aveva abbracciato la missione di suo cognato. Un’indagine, la loro, che aveva cominciato a dare frutti. Rodolfo era convinto che nella morte di Totò avesse svolto un ruolo centrale il boss di Sant’Erasmo, Filippo Marchese, offeso dall’affronto di questo ragazzo che aveva scelto di “lavorare” in proprio. E la reazione dei mafiosi di Sant’Erasmo, che avevano tentato di dissuaderlo dai suoi propositi e di convincerlo a suon di minacce e intimidazioni a desistere, lo aveva ancor più convinto di essere sulla strada giusta. Un mese dopo l’ultimo avvertimento arrivato per bocca di Vincenzo Sinagra, e di fronte alle resistenze di Rodolfo e alla sua volontà di andare fino in fondo a quella storia, la reazione dei mafiosi però si fece più violenta. E, purtroppo, definitiva.
Il 24 maggio del 1982
Il 24 maggio del 1982 Rodolfo era a casa di Benedetta. Con lui c’era anche Matteo. Entrambi furono attirati fuori casa da cinque persone, con la scusa di una proposta di lavoro. Benedetta seguiva la scena dalla finestra. Si distrasse per pochi secondi. Da quel momento, non ha mai più visto suo fratello e suo cognato. Era una trappola. Loro, 24 anni Rodolfo e 18 Matteo, sparirono per sempre nel nulla. Rosetta si lasciò morire di dolore a 21 anni, 35 giorni dopo aver dato alla luce il suo secondo figlio. Aveva smesso di mangiare, non riusciva più a nutrirsi.
Vicenda giudiziaria
Furono soltanto le rivelazioni di Sinagra, imputato nel Maxiprocesso e poi diventato collaboratore di giustizia, a fare luce sul destino di questi due giovani uomini che avevano inseguito il sogno di ottenere giustizia per Totò. Nel racconto del pentito, gli attimi del rapimento, il trasporto di Rodolfo e Matteo nella famigerata “camera della morte” di Sant’Erasmo, le torture e lo strangolamento. Particolari raccapriccianti, resi ancor più drammatici dall’ultimo dettaglio: i corpi furono rinchiusi in due sacchi, caricati a bordo di una Ritmo rubata, poi su una barca e infine fatti affondare in mare, in un punto profondo oltre 70 metri. I loro corpi dovevano essere sciolti nell’acido, la cui quantità però non fu tale da consentire questa macabra operazione.
Per l’omicidio di Rodolfo e Matteo sono stati condannati in primo grado Filippo Marchese, il sadico e spregiudicato boss di Sant’Erasmo, e Pino Greco, boss di Ciaculli, presente nella stanza degli orrori al momento dell’esecuzione. Con loro, finirono condannati altri tre mafiosi.
Ed è qui che entra in gioco Michela e la sua ferma volontà di ottenere giustizia per i suoi due giovani fratelli. Le hanno fatto di tutto: minacce, intimidazioni, il bar di famiglia distrutto da una bomba. Ma lei non si è arresa, fino al processo di secondo grado, quando ha annunciato in aula di voler ritirare la sua costituzione di parte civile. Non poteva mettere a rischio i suoi figli, minacciati di morte direttamente.
Memoria viva
Ma l’impegno di Michela non si è fermato ed è diventato testimonianza quotidiana. Un impegno che tiene viva la memoria di Salvatore e Rodolfo e che è diventato anche un libro, pubblicato dapprima nel 1995 e poi arricchito nel 2010, anche con la prefazione di don Luigi Ciotti. “Nonostante la paura”, si intitola e racconta la storia tragica e sofferta di questa donna, dall’infanzia alla scelta di testimoniare nel Maxiprocesso.
Penso che parlare ai ragazzi sia utile per fare capire cosa fa la mafia e cosa può accadere. Quando vado dai ragazzi, nelle scuole, vedo che mi ascoltano con interesse e la mia speranza è che almeno qualcuno di loro, se ha genitori che fanno parte di queste organizzazioni, vada a casa e pensi con la sua testa. Io l’ho fatto sin da bambina.