Luigi Volpe viveva con la sua numerosa famiglia a Riesi, un paese dell’entroterra di Caltanissetta, nella Sicilia centrale, a una quarantina di chilometri dal capoluogo di provincia. Riesi era stato a lungo un ricco centro minerario, attività che per molto tempo aveva dato a tante persone lavoro e una fonte di reddito sicura. Fino alla metà del secolo scorso, quando la chiusura delle miniere aveva fatto impennare drammaticamente i numeri dell’emigrazione, praticamente svuotando l’intero paese. Il lavoro nei campi e l’allevamento del bestiame erano tra le pochissime possibilità di impiego per chi, nonostante tutto, aveva deciso di restare. Una crisi profonda, ancor più accentuata da una presenza mafiosa che le cronache dell’epoca definiscono dilagante, in un contesto di diffusa illegalità.
E, come se non bastasse, a complicare la situazione si erano aggiunte le frequenti guerre di mafia che insanguinavano le strade di questa fetta di Sicilia, tra i comuni di Riesi, Gela, Mazzarino e Niscemi. Accadeva esattamente questo nei primi anni novanta.
Luigi, al tempo della crisi delle miniere, era poco più che un bambino. Era nato nel 1941, il 12 di dicembre, in quella terra che non aveva mai più abbandonato. Lì aveva conosciuto sua moglie Francesca, di 6 anni più giovane di lui. Lì aveva costruito la sua bella famiglia. Quattro figli - Antonino, Angelo, Giuseppe e Crocifissa - che sosteneva grazie alla fatica del lavoro nei campi. Era un uomo mite, onesto, perbene. E così aveva educato i suoi figli.
21 novembre 1990
Il 21 novembre del 1990 Luigi era con suo figlio Giuseppe in viale Don Bosco, a pochi passi dalla piazza centrale del paese. Si intratteneva con tre amici di ritorno dal lavoro, prima di rientrare a casa. Mancavano pochi minuti alle 20.00 e la strada davanti al bar della Gioventù, abituale luogo di ritrovo per i cittadini di Riesi, era piena di gente. Nessuno dei presenti, e tra questi certamente anche Luigi e Giuseppe, potè fare a meno di notare l’arrivo di una Fiat Uno di colore scuro. Luigi, e come lui tutte le persone che in quel momento si intrattenevano in strada e nel bar, non ebbero neanche il tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo. Una pioggia di piombo. I killer - tre o quattro, stando alla ricostruzione degli inquirenti - arrivarono per uccidere due pregiudicati, Filippo Marino e Giuseppe Laurino, entrambi quarantenni. Ma non si fecero scrupolo di usare i fucili a canne mozze e le pistole con cui erano arrivati in mezzo alla gente, ad altezza uomo. I due pregiudicati furono uccisi senza alcuna pietà, con tanto di colpo di grazia alla testa. Ma non furono gli unici a morire. Ci fu un altro morto, il terzo di quella strage. Luigi venne colpito al torace da un proiettile che non gli lasciò scampo. A raccontarlo è lo stesso Giuseppe, che dovette assistere a tutta la scena: “immediatamente trasportammo mio padre in ospedale, ma fu inutile”. Luigi spirò poco dopo il suo arrivo al pronto soccorso dell’ospedale di Mazzarino, dove intanto erano stati trasportati anche gli altri due feriti: un altro passante, Pietro Pecoraro, di 32 anni, e il carabiniere di 36 anni Giuseppe Toscano, ferito lievemente a un braccio. Il militare era giunto sul posto con una pattuglia appena avvertiti gli spari. Ne nacque un conflitto a fuoco violentissimo. Luigi avrebbe compiuto 49 anni dopo pochi giorni.
Vicenda giudiziaria
Nonostante un clima di “omertà molto diffusa”, nonostante i troppi “non ho visto” e “non so”, gli inquirenti non ebbero dubbi. Sin da subito, le indagini si indirizzarono negli ambienti mafiosi. L’agguato ai due pregiudicati Marino e Laurino andava inserito, secondo gli investigatori, nella violenta faida in corso da qualche tempo tra due clan rivali della zona, che si fronteggiavano a colpi di fucile per il controllo del territorio: il mercato della droga, il racket delle estorsioni, gli appalti per la realizzazione di alcune importanti opere pubbliche, i pascoli e la macellazione clandestina di animali rubati. Affari che facevano gola alle organizzazioni criminali del territorio e per difendere i quali andava usato ogni mezzo. Una faida sanguinosa che aveva fatto in poco tempo più di 50 morti ammazzati. Dopo alcuni anni, l’assoluta estraneità di Luigi ai fatti fu confermata anche dalle dichiarazioni di un pentito, che dichiarò chi fossero i veri obiettivi dei killer giunti in viale Don Bosco a bordo di quella maledetta Fiat Uno nera.
Quel pentito dichiarò che mio padre era morto perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma noi non eravamo nel posto sbagliato. Erano quegli uomini senza scrupoli ad esserlo.
Io mi sono salvato solo perché mio padre ha fatto scudo su di me col suo corpo. Ancora oggi ricordo quei tragici momenti della sparatoria e della corsa in ospedale nel tentativo di salvargli la vita. Con lui, sono volati in cielo i ricordi dei momenti trascorsi insieme. Ma è rimasto il segno dell’affetto lasciato a tutti i familiari, ai parenti, agli amici e a quanti lo hanno conosciuto.