Secondigliano è un quartiere popolare alla periferia settentrionale di Napoli. Strisce d’asfalto e palazzoni sorti tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, a due miglia dal centro della città (secondo miglio). È da questa circostanza che, secondo alcuni studiosi, deriverebbe il nome di questo quartiere, che, pochi lo sanno, fino all’epoca fascista, era un comune autonomo. Ma oggi Secondigliano è noto per altre circostanze, decisamente più tristi. Disagio, emarginazione, criminalità, ne hanno fatto nel tempo uno dei simboli del volto più brutto di Napoli. Qui, tra Secondigliano e Scampia, nel 2014, scoppiò una delle più cruente e sanguinose faide della storia della camorra partenopea, quella tra il clan Di Lauro e il cartello dei cosiddetti Scissionisti: decine di morti ammazzati, a ogni ora del giorno. Una guerra che non ha risparmiato neanche vittime innocenti, totalmente estranee a qualsiasi contesto criminale. Sì, perché a Secondigliano non c’è solo la camorra. Sembra banale, ma è necessario ribadire che qui, tra questi palazzoni, c’è tanta gente per bene, famiglie di lavoratori onesti, gente che si impegna senza sosta per costruire alternative per sé e per gli altri. Il volto bello di Secondigliano. Né più né meno di quanto accade in tanti altri posti simili, alle periferie di tutte le grandi città.
E una persona perbene era Vincenzo D’Anna, che qui si era stabilito con sua moglie e i suoi due figli, Emilio e Mimmo. Vincenzo era una lavoratore onesto, che aveva tirato su, con fatica e sacrificio, una piccola impresa edile, la “D’Anna costruzioni srl”. L’azienda era attiva per lo più nel campo dei lavori di ristrutturazione di edifici, case, ville e condomini privati, garantendo un sostentamento a tante altre persone. Questo piccolo imprenditore conosceva bene il valore e la dignità del lavoro. Vi si dedicava con passione e generosità. Ma Vincenzo conosceva bene anche le difficoltà cui deve fare fronte chi si impegna onestamente in un contesto difficile, dove la presenza asfissiante della camorra impone le sue regole perverse. E del resto il settore dell’edilizia da sempre è stato particolarmente appetibile per le organizzazioni criminali. Quando non gestivano direttamente i lavori, i clan lo facevano indirettamente, imponendo con la violenza tangenti ed estorsioni. Una storia antica, purtroppo, che ancora oggi costringe gli imprenditori onesti a scelte coraggiose di denuncia. Farlo allora, all’inizio degli anni ’90, era senz’altro ancora più difficile.
Molti lavori la ditta di Vincenzo li svolgeva proprio a Secondigliano. E qui, nel territorio del clan Licciardi, la regola era ben nota a tutti: chi voleva lavorare, doveva riconoscere alla camorra il 10% sull’importo totale. Non si scappava. E se volevi scappare da questa maledetta logica, partivano le minacce, le intimidazioni, la violenza. Li aveva sperimentati anche Vincenzo, sulla sua pelle, questi mezzi. Aveva sempre provato a resistere però, sebbene costretto più volte a sospendere gli interventi edilizi. Ne era preoccupato, ovviamente. Spesso ne parlava in famiglia, con i suoi figli e sua moglie. Ma, nonostante le paure, aveva continuato a resistere, senza piegarsi: non era disposto a cedere alle pressioni del clan, svendendo così la sua libertà e la dignità e l’etica del suo lavoro.
Il 12 febbraio del 1993
Il pomeriggio del 12 febbraio del 1993 Vincenzo era stato in banca. Aveva prelevato agli sportelli 3 milioni di lire che gli sarebbero serviti per pagare gli operai al lavoro sul cantiere di Villa Lucia, in via Monviso al rione Monti, lo stesso dove abitava lui. Con quei soldi addosso, intorno alle 17.00, si era spostato verso il cantiere. Ma probabilmente i suoi spostamenti erano stati tenuti sotto controllo. E così, in via Monviso, Vincenzo trovò ad attenderlo tre persone, probabilmente molto giovani e tutte a volto scoperto. Dunque, non diede importanza a quella presenza e fece per raggiungere i quattro operai impegnati a lavorare. Dietro di lui, però, due dei tre malviventi che lo aspettavano gli intimarono di fermarsi e consegnare i soldi. “Lo sappiamo che ce li hai”, gli dissero. Uno di loro gli puntava contro una pistola. Vincenzo restò immobilizzato dalla vista dell’arma, poi, in una reazione istintiva, provò a scappare. Fu colpito alle spalle da un unico colpo, esploso da una calibro 7,65. Poi i tre fuggirono a bordo dello stesso motorino.
Ferito gravemente, Vincenzo fu soccorso da un operaio e trasportato d’urgenza all’ospedale Nuovo Pellegrini. Era ancora cosciente. A suo figlio Mimmo, che gli è accanto, consegna le sue ultime parole “Mimmo, paga gli operai”. Parole semplici che, pronunciate in quella drammatica circostanza, raccontano fino in fondo chi fosse quest’uomo. Viene ricoverato in rianimazione, in attesa di un intervento urgente con il quale i medici sperano di riuscire a salvargli la vita. Ma le lesioni provocate dal proiettile erano troppo gravi. Vincenzo non ce la fa ad affrontare l’intervento. Muore pochi minuti dopo essere entrato in sala operatoria, a 61 anni.
Dopo l’uccisione di suo marito, la vedova di Vincenzo è rimasta a Secondigliano, nella stessa zona dove viveva con la sua famiglia al tempo dell’omicidio. E a Napoli vive anche Mimmo. Emilio invece, dopo aver denunciato gli estorsori di suo padre, ha preferito trasferirsi a Ischia, dove vive con sua moglie e i suoi figli. A Ischia, e in tanti altri luoghi dove vengono promossi e organizzati momenti di memoria, si impegna a tenere viva la memoria di Vincenzo, insieme ai volontari di Libera, alla quale si è avvicinato sin dagli anni immediatamente successivi all’omicidio. A chi lo ascolta, consegna la testimonianza di quest’uomo onesto, dalla schiena diritta, che non volle piegare alle logiche criminali la sua libertà. Racconta spesso delle ultime parole rivolte da suo a padre a suo fratello Mimmo: “Mimmo, paga gli operai”. Parole che suonano come il sigillo di dignità alla sua vita.
Vicenda giudiziaria
Gli inquirenti si mettono subito sulle tracce dei malviventi. Vengono disposte perquisizioni e posti di blocco a tappeto, con le forze di Polizia che si concentrano sugli ambienti criminali legati al clan Licciardi. Si pensa inizialmente a una rapina finita male. Ma i familiari di Vincenzo riferiscono agli investigatori i numerosi episodi di minacce e intimidazioni, indicando con coraggio il responsabile delle continue richieste alle quali Vincenzo non aveva voluto cedere. I riscontri però faticano ad arrivare. Gli esecutori del delitto non vengono individuati e ancora oggi non si conoscono. Il mandante, invece, ha tentato di difendersi fino alla Cassazione, dove è stato condannato a 8 anni di reclusione per il reato di estorsione. L’omicidio di Vincenzo, insomma, è rimasto impunito.
Memoria viva
Il presidio di Libera a Ischia “Gaetano Montanino” in collaborazione con il Comune di Lacco Ameno, l’Istituto Comprensivo “V. Mennella” e l’IPS “V. Telese, ha inaugurato un monumento arboreo alla memoria di cinque vittime innocenti delle mafie, tra cui Vincenzo D'Anna. Le pianti, gli alberi come simbolo di vita e di memoria.
Oggi, a differenza del passato, ci sono molte più leggi che aiutano i familiari delle vittime della criminalità. Ma non basta, lo Stato deve fare di più. Quello che manca è il lavoro, il grosso dramma che genera devianza, illegalità, depressione e criminalità. Anche la scuola, per la sua funzione educativa, è importantissima. La società deve provare a funzionare in tutte le sue componenti: sanità, istruzione, giustizia, casa. Se c’è un punto debole, le mafie s’inseriscono. Chiunque minaccia una persona che svolge il proprio lavoro con onestà e correttezza, è un vigliacco. Un parassita. Il mio invito è a non avere paura di queste persone. Denunciateli, perché dopo la tempesta arriva sempre il sereno. Siate fiduciosi, credeteci.