8 novembre 1947
Marsala (TP)

Vito Pipitone

Contadino e sindacalista, si batteva per l'applicazione della Legge Gullo, finalizzata al riconoscimento dei diritti dei contadini e alla ridistribuzione delle terre incolte, che fino ad allora erano di proprietà dei grandi latifondisti e della borghesia mafiosa.

Il Decreto legislativo luogotenenziale 279 del 19 ottobre 1944 fu, per l’Italia appena uscita dal secondo conflitto mondiale, un vero e proprio terremoto. Lo fu, in particolare, per quella Sicilia in cui lo sfruttamento dei terreni agricoli, e di conseguenza del lavoro dei braccianti, era uno strumento di potere nelle mani della borghesia mafiosa. Fu proprio questa borghesia la prima a mostrare una fortissima resistenza all’applicazione di questa legge, fortemente voluta da un comunista cui era stata affidata la guida del Ministero dell’Agricoltura. Si chiamava Fausto Gullo, aveva origini calabresi e, per la sua attenzione ai diritti dei lavoratori agricoli, fu soprannominato “ministro dei contadini”.

Il Decreto era composto da 9 semplicissimi articoli, il più dirompente dei quali era il primo: “Le associazioni dei contadini, regolarmente costituite in cooperative o in altri enti, possono ottenere cessione di terreni di proprietà privata o di enti pubblici che risultino non coltivati o insufficientemente non coltivati”. In poche righe, si rovesciava il sistema dei latifondi, affidati spesso alla gestione dei gabellotti mafiosi, che schiacciavano la libertà delle masse contadine. E lo si faceva distribuendo quei terreni ai contadini, per assicurare loro condizioni di vita e di lavoro dignitose. Ecco perché si trattò di un vero e proprio terremoto ed ecco perché latifondisti, possidenti e gabellotti usarono tutti i mezzi a loro disposizione per impedirne gli effetti. Tutti i mezzi, compresa la violenza.

Vito Pipitone era anzitutto un contadino. Possedeva un piccolo fondo in contrada Ponte Fiumarella, nelle campagne di Marsala, in provincia di Trapani. Di origini molto umili, rimasto prestissimo orfano di padre, aveva dovuto sin da piccolissimo darsi da fare. Pur di assicurare un sostegno alla sua famiglia, ad appena 6 anni non aveva esitato ad andare a lavorare nelle cave, vedendosi costretto ad abbandonare la scuola, che era riuscito a frequentare solo fino alla seconda elementare.

L’impegno nella difesa dei diritti dei lavoratori e dei braccianti agricoli attraversa tutta la sua vita e diventa via via più strutturato, fino a portarlo ad incarichi di dirigente nella Camera del Lavoro e nella sezione della Confederterra di Marsala, che riuniva le cooperative di contadini nate proprio a seguito delle nuove norme volute da Fausto Gullo per ottenere in concessione le terre incolte. Incarichi che Vito ricoprì con grandissimo senso del dovere. Fu sempre in prima linea, come testimoniano i ritratti che di lui ci consegnano alcune fonti giornalistiche:

Il vice segretario della Confederterra era uno dei migliori dirigenti contadini della provincia, era stato l’organizzatore delle recenti agitazioni per la concessione delle terre incolte e l’applicazione sollecita della legge relativa, era uno degli uomini più noti e amati dalle masse organizzate della zona.
l’Unità - 11 Novembre 1947

Di questo impegno coraggioso e determinato fu fedele compagna e testimone Filippa Di Dia, la donna che Vito aveva sposato e con la quale aveva messo su famiglia. Nella piccola casa di contrada Ponte Fiumarella, Filippa si occupava delle faccende domestiche e di accudire i quattro figli nati dal matrimonio con Vito: Pietro, Maria Pia, Antonio e Melchiorre. Una vita umile ma estremamente dignitosa, attraversata anche dalla sofferenza di un figlio gravemente malato, Melchiorre, morto poi a 14 anni per le conseguenze della sua malattia.

Filippa era totalmente consapevole dell’impegno di suo marito e, naturalmente, anche dei rischi che questo comportava. Non poteva non sapere delle minacce e delle intimidazioni subite da diversi compagni di suo marito, in troppi casi spinte fino alla morte. Come era accaduto, ad esempio, al presidente della Camera del lavoro di Sciacca, Accursio Miraglia, barbaramente ucciso il 4 gennaio del 1947.

Tuttavia, Filippa non aveva mai fatto mancare il suo sostegno a suo marito. Probabilmente, non lo fece neanche nelle ultime ore di vita di Vito, quando seppe di un importante impegno cui, la mattina di domenica 9 novembre, avrebbe dovuto assolvere a Salemi, dove era atteso per una delicata trattativa per l’assegnazione ai contadini di alcuni lotti di terreno del feudo Giudeo. Una questione assai delicata, che tuttavia lui era deciso ad affrontare con la consueta fermezza, convinto che avrebbe ottenuto ciò che i suoi compagni si aspettavano da lui. Compagni che, tuttavia, Vito non riuscì mai più a vedere.

8 novembre 1947

Nel tardo pomeriggio di sabato 8 novembre, Vito aveva lasciato la sua proprietà di Ponte Fiumarella per raggiungere casa di sua madre a bordo della sua bicicletta. Non più di un chilometro in direzione del mare, lungo strade e vicoli che Vito conosceva perfettamente. Antonio, che all’epoca aveva 4 anni, implorò suo padre di poterlo accompagnare, ma Vito si rifiutò, assicurando a lui e alla sua famiglia che sarebbe rientrato presto. Ma i bambini, come i suoi compagni, non lo rividero mai più.

Intorno alle 19.00, in una traversa di via Bue Morto, in contrada Bambina, quando ormai era a pochi metri da casa di sua madre, Vito fu raggiunto da un colpo di lupara frontale al torace, che gli colpì lo stomaco. Chi aveva sparato senza pietà, lo lasciò a terra, sul selciato, agonizzante e in un lago si sangue. Raggiunto dai soccorsi, fu trasportato di corsa all’ospedale di Marsala, dove i medici tentarono un disperato intervento chirurgico per salvargli la vita. Inutilmente. Vito spirò dopo circa 24 ore di agonia. Aveva 39 anni. Filippa, l’unica a riuscire a vederlo prima che morisse, ne aveva 37. Il più grande dei suoi figli, Pietro, appena 8 e Maria Pia 6. Melchiorre, l’ultimo, soltanto 2.

Filippa e i bambini attesero per tutta la notte il rientro di Vito. Nessuno li avvisò di quello che era accaduto fino alla mattina successiva:

Nella prima mattinata è venuta una persona che cercava papà, ma la mamma non lo conosceva. Gli ha detto “mio marito non c’è”. Noi siamo rimasti tutti impauriti di questa persona. Poco dopo sono venuti i carabinieri e hanno detto che papà stava poco bene e che si trovava all’ospedale. La mamma è andata con i carabinieri a vedere papà. Mio padre era ferito allo stomaco, parlava con la mamma ma io con i miei fratelli e sorella non l’abbiamo visto più. Mio padre è stato circa 24 ore in ospedale e dopo l’hanno portato nella chiesa madre di Marsala. Il parroco non voleva accettare in chiesa mio padre perché era un comunista, in quel periodo non poteva andare in chiesa. Ma con la forza della politica di papà e con l’aiuto del sindaco del comune di Marsala abbiamo ottenuto che restasse tutta la notte in chiesa fino all’indomani pomeriggio. Al funerale ci sono state più di cinquemila persone.
Antonio Pipitone, figlio di Vito

Quelle cinquemila persone erano il segno dell’affetto e della stima che Vito era riuscito a conquistarsi tra i suoi concittadini. L’indignazione e la rabbia, in particolare dei suoi compagni di lotta politica e sindacale, sfociarono anche in manifestazioni pubbliche e agitazioni che furono represse con la violenza dalla Polizia. Nè ci fu una reazione unanime e ferma della politica, che esitò a chiamare le cose con il loro nome.

Vicenda giudiaria

Furono effettuati alcuni fermi per l’omicidio di Vito, ma le indagini non ebbero seguito, fino alla loro definitiva archiviazione. Un’altra morte rimasta impunita.

Memoria viva

Dopo l’uccisione di suo marito, Filippa ha dovuto sostenere da sola il peso della sua famiglia, riuscendo tuttavia a prendersi cura con amore dei suoi figli. È morta il 19 maggio del 1989, dopo una vita di sacrifici. Tra i figli di Vito, Antonio in particolare è riuscito, con il tempo, a farsi testimone della memoria di suo padre, spesso accompagnato da sua figlia Marianna. L’incontro con Libera ha dato una spinta a questo lavoro. A Vito, infatti, è intitolato il Presidio di Libera a Marsala, grazie al quale, dopo molti anni di silenzio, il nome di Vito Pipitone è tornato a riecheggiare nella sua città.

In un terreno di proprietà della famiglia Pipitone, oggi si trova anche una stele che ne conserva la memoria e il messaggio di libertà e di coraggio.

Anche di Filippa Di Dia è stata riscoperta e raccontata la testimonianza, affidata anche a uno spettacolo teatrale di Chiara Putaggio dal titolo “Ed io l’amavo”. Strade diverse ma un unico impegno: non dimenticare.