Terzo di sei figli, Gioacchino Crisafulli era nato nel marzo del 1922 a Furnari, un piccolo paese di poco più di tremila abitanti, a una sessantina di chilometri da Messina. La sua infanzia e la sua adolescenza erano trascorse in questa umile e numerosa famiglia. Il padre, in servizio nell’Arma dei Carabinieri, era stata per lui una fortissima figura di riferimento. Gioacchino aveva imparato da lui il senso della fierezza e della disciplina, il rigore morale, un profondissimo senso del dovere e dell’onore. Spinto da questi sentimenti, il 25 gennaio del 1942, non ancora ventenne, si arruolò nell’Esercito, in servizio presso il 64° Reggimento di Fanteria Ivrea. Come soldato di leva, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, partecipò a numerose operazioni belliche, che affrontò sempre ispirato dai valori ai quali era stato educato. Ne è testimonianza evidente l’encomio solenne che gli fu conferito nel luglio del 1943 dal Comando Generale dell’Arma.
Durante violento bombardamento aereo nemico, addetto ad un rifugio cittadino in parte colpito, si prodigava nelle cure dei feriti, rianimando con la propria serenità gli altri cittadini e dando prova encomiabile di calma e sprezzo del pericolo.
Quando l’Italia si divise in due, a seguito della firma dell’armistizio il 3 settembre1943, Gioacchino decise subito da che parte stare. Sfuggì alla cattura da parte delle truppe nazifasciste e trovò rifugio in una cantina piena di tabacco a Santa Maria Capua Vetere e prese parte alla guerra di Liberazione. Calma e sprezzo del pericolo sono qualità che Gioacchino mostrò per tutto il resto della sua vita, a maggior ragione quando, il 23 gennaio del 1945, si arruolò nell’Arma, riuscendo a indossare la divisa che già era stata di suo padre. Un lavoro nel quale credeva profondamente e che affrontò sul campo con spirito di abnegazione e di sacrificio. Fu agli ordini del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, dapprima nel Centro Repressione Forze Banditismo a Corleone e poi, dal 1963 al 1969, alla Legione Carabinieri di Palermo. Una vita intensa, trascorsa a inseguire mafiosi e criminali. Si era sposato e aveva avuto due figli, Luigia e Carmelo e che aveva cresciuto con gli stessi valori di giustizia e senso del dovere con i quali era cresciuto lui. Sicuramente un padre severo, ma sempre presente al fianco dei figli. Il 19 gennaio del 1977, dopo 45 anni di servizio dapprima nell’Esercito e poi nell’Arma, andò finalmente in pensione. Ma carabinieri non si smette mai di esserlo. E la storia di Gioacchino ne è la prova lampante.
Benché in quiescenza, infatti, Gioacchino non abbandonò mai i valori in cui credeva. Erano anni difficili quelli successivi al suo pensionamento, anni nei quali la mafia corleonese stava affermando il proprio dominio sul territorio: omicidi, traffici illeciti, droga. Gioacchino conosceva quegli ambienti e aveva un fiuto particolare, che difficilmente lo ingannava. Qualità che, come era stato per lui con suo padre, aveva trasmesso anche a suo figlio Carmelo Bartolo, che pure aveva intrapreso lo stesso percorso del padre, diventando anch’egli carabiniere. E fu proprio il suo fiuto a decretarne in qualche modo la condanna a morte.
L’episodio che segna il destino di Gioacchino è legato a un furgone. Un mezzo che lui aveva visto più volte transitare nei pressi della sua abitazione, in una zona piuttosto isolata della città di Palermo. Dunque, quell’andirivieni lo aveva insospettito: cosa trasportava? Chi lo guidava? Perché, per raggiungere il porto, quel mezzo così insolito per la zona di campagna in cui viveva, percorreva accuratamente strade secondarie? Domande alle quali Gioacchino era deciso a trovare una risposta. Così, un giorno di quel maledetto mese di aprile del 1983, quelle domande Gioacchino le rivolse direttamente ai due uomini che abitualmente erano a bordo del furgone, che non esitò a fermare. Quell’appostamento inatteso infastidì notevolmente chi dirigeva le operazioni di quello che poi, solo successivamente, le indagini individuarono come un vero e proprio traffico di eroina in transito per il porto di Palermo e diretto negli Stati Uniti. Il fiuto, anche stavolta, non aveva ingannato Gioacchino.
Il 27 aprile del 1983
Nonostante l’intervento del carabiniere in pensione, del quale peraltro Gioacchino non aveva fatto parola neanche in famiglia per non creare allarme, quell’affare non fu impedito. Ma quell’interessamento e quell’intervento furono intollerabili per Cosa nostra. Intorno alle 18 del 27 aprile 1983 Gioacchino stava passeggiando tranquillamente in via Riserva Reale, una traversa di Corso Calatafimi. Improvvisamente, due uomini a bordo di una vespa gli si avvicinarono. Avevano entrambi il volto scoperto. Probabilmente erano gli stessi che, qualche giorno prima, lo avevano avvicinato nei pressi di casa sua per chiedergli una bottiglia d’acqua. Un episodio che solo successivamente è stato ricondotto alla volontà dei killer di accertarsi dell’identità dell’uomo per programmare l’agguato. Fatto sta che, quel pomeriggio, l’azione di morte degli assassini fu fulminea. Gioacchino cadde sotto i colpi di una calibro 38 che gli troncò tragicamente la vita, a 61 anni. La figlia era in casa a studiare e sentì gli spari e vide allontanarsi i due uomini.
Vicenda giudiziaria
Le indagini partirono nell’immediato, ma si scontrarono con tanti dubbi e pochissime certezze. Gli investigatori facevano fatica a individuare il movente dell’omicidio di un carabiniere in pensione ormai da diversi anni. Si pensò a un possibile ruolo nella vicenda del figlio di Gioacchino, all’epoca trentenne, a qualcosa su cui entrambi avevano indagato. Ma il fascicolo su quell’omicidio, benché ricco di elementi, non conteneva nulla in grado di portare aduna verità giudiziaria. Per troppo tempo, questa morte è rimasta impunita, nonostante le pressanti richieste della famiglia per ottenere verità e giustizia. La svolta avvenne molti anni più tardi, a seguito delle dichiarazioni di Salvatore Cancemi, reggente del mandamento di Porta Nuova, divenuto collaboratore di giustizia. Cancemi consentì agli inquirenti di riprendere quel vecchio fascicolo e di fare luce sulla vicenda. Il collaboratore fece i nomi di mandanti ed esecutore. A decretare la morte di Gioacchino furono Pippo Calò e Giovanni Motisi, capi mandamento di Cosa nostra, che armarono la mano di Gioacchino Cillari. Nel novembre del 2001 è arrivata la condanna all’ergastolo, al termine di un processo nel quale la famiglia si è costituita parte civile.
Memoria viva
Sono numerosi i riconoscimenti attribuiti a Gioacchino Crisafulli nel corso degli anni. Ultimo in ordine di tempo, la Medaglia d’Oro al Merito Civile concessa al carabiniere dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 5 giugno 2017. Nella motivazione, ci si riferisce a lui come a un “mirabile esempio di straordinario senso di legalità e di altissime virtù civiche”. Una testimonianza di cui, da quando suo padre è stato finalmente riconosciuto come vittima innocente della mafia, si è fatto carico Carmelo Bartolo, oggi anch’egli in pensione, che si è battuto con tutte le sue energie per tenere viva la memoria del padre e che ora continua a raccontarne la storia soprattutto ai più giovani:
Mio padre aveva un carattere duro, un carattere piuttosto riservato. Aveva una formazione militare che manifestava anche in famiglia, poco dialogo e molti ordini. Era un vero carabiniere nato, un soldato tutto d’un pezzo.
Durante la mia formazione mi pervenivano continue richiesta da parte di alcuni plessi scolastici, che volevano una testimonianza del mio vissuto e di quello di mio padre. Io non volli aderire a queste richieste atteso che non avevo i decreti di riconoscimento del mio status di Vittima della mafia. Soltanto dopo il processo e le condanne decisi che fosse giunto il momento di trasferire le mie conoscenze agli studenti. Su invito delle varie associazioni, che nel territorio si occupano del fenomeno mafioso, cerco di soddisfare le numerose richieste che mi pervengono. Faccio del mio meglio coinvolgendo gli studenti, in questo aiutato dalla mia formazione e devo dire che i ragazzi rimangono affascinati, ascoltano in religioso silenzio e quando dò loro la possibilità di farmi domande, emerge l’interesse e il loro coinvolgimento. Credo sia questa la strada, la formazione attraverso la testimonianza.