La condizione di detenzione in carcere, si sa, non sempre è stata in grado di interrompere il filo di comando delle organizzazioni mafiose. Tutt’altro. Molto spesso, purtroppo, neanche la galera è riuscita a isolare i detenuti, impedendo loro di rimanere in contatto con l’esterno, di trasferire i loro ordini, di tenere le redini dei clan. È accaduto con modalità diverse, e tra queste, anche con l’abitudine a inviare dietro le sbarre pacchi, lettere, notizie, informazioni. In Campania, la stagione del dominio della NCO di Raffaele Cutolo è stata probabilmente quella nella quale, come non mai, questo fenomeno è stato evidente. Al netto, naturalmente, del senso del dovere e di responsabilità di tanti agenti di custodia che invece hanno fatto fino in fondo il loro dovere, riuscendo a tagliare il filo perverso del rapporto tra il dentro e il fuori del carcere. Nicandro Izzo è stato uno di questi agenti.
Era nato a Calvi Risorta, un piccolo paese in provincia di Caserta, il primo dicembre del 1944. Qui era cresciuto coltivando il sogno di diventare un agente di custodia, un appartenente cioè a quello che poi sarebbe diventato il corpo della Polizia Penitenziaria. Era un ragazzo rigoroso e onesto Nicandro e, crescendo, avrebbe continuato per tutta la vita a sentire forte dentro di sé un profondo senso di orgoglio e di appartenenza a quella divisa. Si arruolò a 23 anni, il 30 marzo del 1967, e si trasferì in provincia di Savona per frequentare il corso di formazione presso la scuola allievi di Cairo Montenotte. Il suo primo incarico fu presso la Casa Lavoro dell’Isola di Gorgona, a 34 chilometri dalla costa di Livorno. Poi, nel 1969, il trasferimento alla Casa Circondariale di La Spezia e, infine, nell’estate del 1976, il nuovo incarico - quello definitivo - al carcere di Poggioreale.
Intanto, Nicandro aveva costruito anche la sua bella e tranquilla vita familiare. Si era unito in matrimonio con una donna originaria di Pignataro Maggiore, un altro piccolo comune casertano a meno di 10 chilometri da Calvi. Maria Senese - così si chiamava sua moglie - gli diede due splendidi figli, Orsola e Antonio. Una famiglia normale, uno dei due poli attorno ai quali ruotava la vita di questo onesto servitore dello Stato. L’altro era, naturalmente, quel lavoro che tanto amava.
Nell’istituto di pena napoletano, Nicandro fu destinato a un incarico all’apparenza banale ma, in realtà, assai delicato. A lui, infatti, fu assegnato il compito di controllare i pacchi indirizzati ai detenuti. Nicandro sapeva bene che, per i carcerati, quello era diventato un canale privilegiato di comunicazione con l’esterno e lui sentiva molto forte la responsabilità di impedire che questo avvenisse. Per questo svolse il proprio lavoro con estremo rigore, di fatto tagliando quel canale di relazione tra i boss dietro le sbarre e i loro accoliti ancora liberi. Un rigore che la camorra non gli perdonò.
Il 31 gennaio del 1983
Prima arrivarono le minacce, puntualmente nascoste alla moglie Maria, forse nel tentativo di evitarle preoccupazioni, di tenere la famiglia al riparo dal clima di tensione che si respirava in carcere. Intimidazioni che si fecero via via più pesanti, fino a indurre il Ministero di Grazia e Giustizia a disporre il trasferimento di Nicandro al carcere romano di Rebibbia, per ragioni definite “precauzionali”. Il 31 gennaio del 1983, dunque, sarebbe stato l’ultimo giorno di lavoro dell’appuntato Izzo a Napoli. Aveva finito il suo turno la sera precedente, ma aveva deciso di rimanere a dormire in carcere per chiudere alcuni ultimi adempimenti burocratici. Poi, intorno alle 8.45 di quel giorno maledetto, dopo aver saluto amici e colleghi, aveva lasciato Poggioreale, incamminandosi a piedi lungo Corso Malta verso Porta Capuana, dove sarebbe salito sull’autobus che lo avrebbe riportato a Santa Maria Capua Vetere, dove viveva con la sua famiglia. Ma a casa Nicandro non arrivò mai. A pochi metri dalle mura di cinta del carcere, tra le bancarelle del mercato che in quel momento si stava svolgendo, si accasciò al suolo in una pozza di sangue. Qualcuno lo aveva aspettato all’uscita dal lavoro, lo aveva seguito forse a bordo di una moto e poi gli aveva sparato un solo colpo di pistola alla nuca, utilizzando un silenziatore. Nessuno si accorse di nulla. Neanche lui, che morì così, a 39 anni.
Vicenda giudiziaria
In serata, l’omicidio dell’appuntato Nicandro Izzo fu rivendicato, con una telefonata alla redazione del quotidiano Il Mattino, dal sedicente gruppo terroristico del Fronte delle Carceri. Una rivendicazione immediatamente ritenuta poco attendibile dagli inquirenti, convinti che invece il movente di quel delitto andasse ricondotto al rigore e al senso del dovere con cui l’agente aveva sempre svolto il suo lavoro, creando non poche difficoltà ai gruppi di camorra. Insomma, la matrice di quell’agguato era chiaramente di stampo mafioso e camorristico. E del resto - raccontano le cronache dell’epoca - quell’omicidio era il sesto negli ultimi 18 mesi che aveva visto cadere persone che lavoravano nell’ambiente carcerario. Il suo omicida non è mai stato individuato.
La morte di Nicandro gettò nella disperazione la sua famiglia. Furono anni difficilissimi, nei quali Maria decise di tornare a vivere, insieme ai due bambini, nella casa dei suoi genitori a Pignataro Maggiore.
Quella mattina mi chiamò Mario Marrandino (ragioniere presso il carcere di Poggioreale, ndr), un amico di Nicandro, che mi disse che Nicandro era caduto scendendo le scale in istituto e che lo avevano portato in ospedale. Mi recai subito a scuola a prendere i bambini per andare a casa dei miei genitori a Pignataro Maggiore. Gli autobus non passavano e così decisi di chiedere un passaggio ai colleghi di mio marito del carcere di Santa Maria Capua Vetere, che era lì vicino. Mi accompagnarono a Pignataro con una macchina di servizio. Sotto casa dei miei genitori c'era il caos: gente che urlava, mia madre che piangeva. Poi tornò mio padre con i carabinieri, che ci accompagnarono a Poggioreale. Quando arrivammo c'era un silenzio surreale, allora capii che mio marito era stato ucciso. Mio marito era una persona dedita solo alla famiglia e al lavoro. Con la sua morte ci è mancato tutto: l’affetto, la presenza. Mio figlio Antonio, che era il più piccolo, cercava sempre il suo papà. Mi chiedeva quando sarebbe tornato a casa e io gli dicevo che era stato trasferito, poi che era andato in ferie, cercando sempre di rimandare la verità.
Memoria viva
L’appuntato Nicandro Izzo, ucciso a 38 anni dalla camorra semplicemente perché faceva bene il suo lavoro, è stato riconosciuto vittima del dovere. La sua storia è raccontata nel libro “Al di là della notte. Storie di vittime innocenti della criminalità” pubblicato nel 2010 dal giornalista Raffaele Sardo. Nel 2011 a Calvi Risorta è stata inaugurata una piazza intitolata alla sua memoria. L’anno successivo, il Comune di Pignataro Maggiore ha istituito una borsa di studio per ricordare il suo sacrificio. Ancora a Pignataro, a lui è intitolata anche un’area verde attrezzata per bambini.