30 giugno 1963
Borgata Ciaculli – Palermo (PA)

Pasquale Nuccio

La Strage di Ciaculli segnò il culmine di una stagione di violenza che insanguinò le strade della Sicilia nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Sette morti per uno degli episodi più sanguinosi e cruenti della storia di Cosa nostra. Sette morti che cambiarono il corso della storia dell'antimafia. Sette morti accomunati da un destino crudele e le cui storie individuali in qualche modo si perdono e si confondono in una storia collettiva che ha intrecciato per sempre le loro vite. Anzi, le loro morti.

Una di queste storie è quella di Pasquale Nuccio. Sulla sua vita prima di quel maledetto 30 giugno del 1963 sappiamo poco. Ciò che si sa è che era un maresciallo artificiere dell’esercito in forza al 46° Reggimento fanteria del Car. Aveva alle spalle un’esperienza quasi trentennale, che lo aveva visto impegnato in operazioni di disinnesco anche molto delicate. Come quella volta che, un paio di anni prima della strage che se lo portò via, aveva disinnescato una bomba di 500 chili, lanciata da un aereo ma rimasta in esplosa e ritrovata, a distanza di tempo, in via Isidoro La Lumia, a Palermo, durante gli scavi per la costruzione di un palazzo. Doveva essere dunque un militare assai esperto e scrupoloso, le cui doti di artificiere gli avevano procurato la stima e il rispetto dei colleghi. Una delle poche - se non l’unica - foto che di lui circola in rete, lo ritrae in divisa, sguardo fisso davanti a sé, orecchie pronunciate e un viso rassicurante. Gli si scorgono le mostrine sul bavero della giacca. E non è un particolare di poco conto, perché fu solo grazie a queste mostrine che, dopo quell’orribile esplosione che dilaniò il suo corpo, i suoi allievi della scuola di artiglieria riuscirono a identificarlo.

Aveva moglie e quattro figli. Quel maledetto 30 giugno Pasquale era in licenza. Con la sua famiglia aveva deciso di trascorrere le vacanze a Mondello. Dunque non avrebbe dovuto lavorare. Ma Pasquale era un militare esperto e, quando c’era bisogno di lui, non si tirava indietro. Fu allertato in mattinata e si precipitò sul posto. Non c’era molto spazio per le licenze in quegli anni e Pasquale lo sapeva bene. Erano gli anni drammatici della prima guerra di mafia: omicidi, attentati, esplosioni, vendette. Una faida tutta interna a Cosa nostra, scatenata per contendersi la supremazia nel settore del traffico di droga. Uno scontro all’ultimo sangue che vedeva contrapposte, in particolare, le famiglie Greco e La Barbera. Una mattanza.

Il 30 giugno del 1963

Il 30 giugno del 1963 iniziò nel peggiore dei modi. Nella notte, a Villabate, un’Alfa Romeo Giulietta imbottita di esplosivo era stata abbandonata davanti all'autorimessa del mafioso Giovanni Di Peri. La sua esplosione provocò la morte del custode dell’autorimessa Pietro Cannizzaro, 59 anni, e del fornaio Giuseppe Tesauro, che di anni ne aveva 42. Era il prologo di quello che sarebbe accaduto poche ore più tardi, in un caldo pomeriggio di inizio estate, nella borgata agricola di Ciaculli.

La cronaca convulsa di quelle ore è scandita dai movimenti di queste sette persone il cui destino si è incontrato, per non separarsi mai più, a Ciaculli. In mattinata, mentre ancora l’eco dell’esplosione di Villabate risuonava tra gli uffici di Polizia e Carabinieri, alla caserma di Palermo arriva una telefonata. Dall’altra parte della cornetta, una voce avvisa i militari della presenza, nei pressi di Villa Serena, di un’altra Giulietta. Ha gli sportelli aperti e una ruota forata e dentro è chiaramente visibile un ordigno esplosivo. Il carabiniere che raccoglie la chiamata appunta tutto su un foglietto che passa al tenente Mario Malausa. Quando l’ufficiale lo legge si rabbuia. Villa Serena non è un posto come un altro. Lui sa perfettamente che lì, in quella zona di campagna, c’è la villa di Totò Greco. Dà l’ordine di piantonare l’auto, allerta la Questura, richiede l’intervento degli artificieri e si precipita sul posto. Sono da poco passate le 10. Qui trova, tra gli altri, quattro colleghi dell’Arma - i marescialli Silvio Corrao e Calogero Vaccaro e gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli.

Intorno alle 15 arrivano il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio e il soldato Giorgio Ciacci. Sono i due artificieri giunti per disinnescare la bomba, in un intervento che peraltro appare immediatamente molto semplice. La tensione sembra allentarsi quando gli artificieri si rendono conto che la miccia che avrebbe dovuto innescare l’esplosione del tritolo e, di conseguenza, della bombola del gas alla quale era collegato, è semi bruciata. È un lavoro di pochi minuti. Nuccio armeggia con i suoi strumenti e dichiara lo scampato pericolo. Ma è solo un’illusione. Una orribile trappola. Nessuno immagina che possa trattarsi di un ordigno a doppia carica. La bomba vera, quella che avrebbe dovuto uccidere, esplose nell’attimo esatto in cui il tenente Malausa aprì il bagagliaio della vettura. Sono le 16.15 in punto.
La deflagrazione fu tremenda. Di queste sette uomini non rimasero che pochi resti carbonizzati. Di Pasquale, in particolare, furono ritrovate la giubba e un moncone sfigurato. E le mostrine del bavero della divisa, che consentirono ai suoi allievi di identificarlo.

La strage fu di una tale gravità da suscitare una reazione molto forte nelle Istituzioni e nell’opinione pubblica, in un periodo nel quale ancora lo Stato non aveva gli strumenti per contrastare adeguatamente una mafia che non aveva posto nel Codice Penale. Centinaia di arresti e perquisizioni misero in allarme le cosche siciliane, inducendole a fermare lo scontro e a siglare una tregua. Il 6 luglio, pochi giorni dopo l’attentato, finalmente si insediò la Commissione Antimafia, costituita già a febbraio ma mai messasi al lavoro. Ed è figlia di questa orribile tragedia la Legge 575 del 1965, un testo che ancora oggi costituisce il perno della legislazione antimafia in Italia e che, introducendo lo strumento delle misure di prevenzione personali, può essere considerata l’antesignana della successiva legge sulle misure di prevenzione patrimoniali voluta da Pio La Torre e approvata nel 1982.
Il quotidiano “Il Tempo” pubblicò 13 giorni dopo la strage un articolo scritto dal giornalista Pippo Fava dal titolo "I delitti della mafia resteranno ancora impuniti?", un’analisi attenta e puntuale su quanto stava avvenendo in Sicilia in quei mesi.

L'insegnamento che mio padre ci ha lasciato è di vivere in rettitudine e combattere qualsiasi ingiustizia.
Francesco - figlio di Pasquale

Vicenda giudiziaria

E tuttavia questa strage non ha colpevoli. Le indagini dell'epoca ipotizzarono un mancato attentato preparato dai mafiosi Pietro Torretta, Michele Cavataio, Tommaso Buscetta e Gerlando Alberti ai danni del boss di Ciaculli Salvatore Greco. Torretta e Buscetta vennero rinviati a giudizio per le autobombe di Villabate e Ciaculli, ma nel processo di Catanzaro, iniziato nel 1968 contro i protagonisti della prima guerra di mafia, vennero assolti per insufficienza di prove. Anni più tardi, nel 1984, lo stesso Buscetta, divenuto collaboratore di giustizia, si discolperà e indicherà in Michele Cavataio l'unico responsabile delle due autobombe. Quelle sette vite spezzate non hanno mai più avuto giustizia.

Memoria viva

Il nome di Pasquale è ricordato, insieme alle oltre 1000 vittime innocenti delle mafie che ogni anno in occasione del 21 marzo, la Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, riecheggiano in tanti luoghi. Per noi Pasquale ha un vero e proprio diritto al ricordo, un diritto che restituisce “dignità” a ogni nome che ricordiamo, che rappresenta la promessa a Pasquale che non dimenticheremo la sua storia, i suoi progetti di vita, portando con noi i suoi sogni e rendendoli vitale pungolo del nostro impegno quotidiano.