Suo padre avrebbe voluto per lui un futuro diverso, lontano dalla Calabria. Lo aveva spinto a studiare fuori, nonostante la piccola attività di famiglia avesse bisogno di lui. Ma Domenico Gullaci quel progetto di lasciare la Calabria lo aveva abbandonato presto. E così era rientrato nella sua terra, a Canolo, paese di poco più di 700 anime sui contrafforti orientali dell’Aspromonte. Nell’impresa di famiglia Domenico aveva fatto di tutto, buttandosi a capofitto nel lavoro insieme a suo fratello, con il quale avrebbe rilevato l’attività avviata dal padre. “Meridionale Intonaci” si chiama l’impresa edile. In pochi anni, grazie alle sue qualità imprenditoriali, quell’attività era cresciuta, si era allargata in Italia e all’estero, puntando sulla qualità e l’innovatività della produzione.
Giovanissimo, Domenico si era sposato con Brunella. Un amore profondo, da cui erano nati quattro bambini: Anna Rita, Francesco, Federico e Giorgio. L’ultimo, nel 2000, aveva appena 6 anni. La più grande, solo poco più di 10. Una famiglia tranquilla, con valori forti.
Chi lo ha conosciuto descrive Domenico come un uomo mite, sempre disponibile, corretto, onesto. L’amore per la famiglia e per il lavoro, cui si dedicava instancabilmente per gran parte del giorno con un approccio fortemente orientato all’innovazione, sembrano i tratti principali della sua personalità. E per il lavoro e la famiglia aveva sempre fatto grandi sacrifici, seppur ripagati dal successo della sua impresa. E poi c’era il calcio, un’altra grande passione della sua vita. Il Cosenza, la Juve, le partite allo stadio. Una vita normale insomma.
Ma una vita scandita anche da momenti dolorosi. Due in particolare, legati alla morte dei sue due cognati, Antonio Tarsitani e Francesco Marzano, entrambi uccisi in maniera violenta. Il primo si occupava di contributi comunitari nel settore oleario. Fu ammazzato nel giugno del 1993 mentre viaggiava tra Palmi e Bagnara. Il secondo, commerciante di arredi e macchine per uffici, ucciso nel dicembre del 1997 a Siderno.
13 aprile del 2000
La mattina del 13 aprile del 2000, Mimì aveva lasciato, come sempre, molto presto la sua abitazione di via Primo Maggio, nel centro di Marina di Gioiosa Jonica, a pochi metri dalla Caserma dei Carabinieri e dalla scuola elementare. Aveva varcato la soglia del portone poco prima delle 7.00. In mano un sacchetto della spazzatura da depositare nel bidone a pochi passi da casa. Poi si era diretto verso la sua Mercedes ma, stando alla ricostruzione degli inquirenti, non riuscì a salirvi. Un chilogrammo di esplosivo, di quello utilizzato per le cave di marmo, e di polvere da sparo, azionato molto probabilmente a distanza, causò una detonazione spaventosa, avvertita nel raggio di due chilometri. Un inferno. Di Mimmo rimase sull’asfalto solo un cadavere martoriato. QUella mattina per fortuna era il turno di Brunella di portare a scuola i figli e per puro caso non erano con lui come ogni mattina.
“Ho visto uno spettacolo raccapricciante. Un episodio di portata eccezionale”, dichiarò a caldo Rocco Lombardo, Procuratore della Repubblica di Locri.
Il giorno dei funerali, i commercianti di Marina abbassarono le serrande dei loro negozi. Un segno di rispetto e di solidarietà ma anche di protesta per una violenza inaudita. Quel giorno i Sindaci di 42 comuni calabresi si presentarono in fascia tricolore, per provare ad attirare l’attenzione sulle dinamiche criminali che stavano insanguinando il territorio della Locride. Ma furono presenze isolate e legate al territorio. Poi più nulla. E le parole del Vescovo di Locri, quel coraggioso Giancarlo Bregantini così attivo nella lotta alle 'ndrine, sottolinearono questa assenza: “Questo è un rammarico proprio inatteso. Ci ha fatto capire che loro, i politici, non hanno colto il segno o che, immersi nella propaganda elettorale, non hanno avuto la saggezza di esserci. La politica è lontana”. Un vero e proprio atto d’accusa.
Vicenda giudiziaria
Perché, appunto. Questa domanda, a 20 anni da quella barbara esecuzione, non ha ancora una risposta. Gli investigatori della DDA hanno battuto tutte le piste, arrivando anche a emettere una ventina di avvisi di garanzia, alcuni nei confronti di esponenti di peso della 'ndrangheta. Ma le indagini non sono mai approdate a nulla di concreto. Nulla, né un movente né il nome di mandanti ed esecutori. Tutto avvolto nel mistero. L’attività imprenditoriale di Domenico era stata oggetto di alcune intimidazioni nei mesi precedenti: un camion dato alle fiamme, un atto di vandalismo alla villa che si stava costruendo. Episodi gravi ma non tali da lasciar presagire una violenza omicida così spaventosa. Perché le modalità di quell’assassinio sono state sin da subito considerate insolite dagli inquirenti, per nulla tipiche della mafia calabrese. Che del resto avrebbe potuto ammazzare Mimì in tanti altri modi. Invece scelse un’attentato plateale, spettacolare. Si arrivò a seguire anche la pista dei legami con Cosa Nostra, in ragione degli interessi economici della Meridionale Intonaci in Sicilia. Ma niente, quel perché rimane senza risposta. Anche gli omicidi dei suoi due cognati avvenuti negli anni passati furono in seguito ritenuti scollegati dall’assassinio di Domenico. Un assassinio che, per le sue modalità, scosse profondamente la Locride.
Memoria viva
La maggiore delle figlie di Mimmo Gullaci, Anna Rita, si occupa di teatro. Lo fa trasformando questa forma di arte in uno strumento di pedagogia per bambini e adolescenti. E lo fa parlando anche di mafia e antimafia, lei che ha subito sulla sua pelle questa profonda ingiustizia.
Mi sono sempre domandata cosa un mafioso potesse insegnare al proprio figlio. Io credo molto in quello che i giovani possono insegnare. E io nel mio piccolo sto provando a fare proprio questo: trasmettere alle persone il messaggio che la vita è molto bella e che basta poco per cambiare. Sta tutto nelle piccole scelte della vita quotidiana.
Brunella, sua moglie, continua a chiedere giustizia. Ricorda le doti umane di suo marito, descrivendolo come un padre e un marito esemplare. Lo descrive nella sua onestà, nel suo attaccamento al lavoro. Racconta di un dolore immenso e di una profonda rabbia. “Mi è crollato il mondo addosso, sono stati anni difficili” dice nella stessa intervista. Anni passati a portare avanti con fatica, insieme con suo cognato, l’attività di suo marito, a crescere i loro bambini. La famiglia e la fede le hanno dato la forza di sopportare il dolore, di andare avanti. Anni nei quali, nonostante tutto, “ho continuato, nel mio cuore, a credere nella giustizia. Anche se - dice - non mi ridarà indietro mio marito”.