Il Goceano è un pezzo di territorio incastonato nel cuore della Sardegna centro-settentrionale. 480 chilometri quadrati di terra selvaggia con una decina di comuni che, tutti insieme, non fanno più di 13 mila abitanti. Uno di questi comuni è Burgos, un piccolo paese a un’ottantina di chilometri da Sassari, circondato dalle foreste e dominato da un antico castello eretto nel 1129. È qui, in questo sperduto angolo di Sardegna, che si snoda la storia di Bonifacio Tilocca, un ex operaio padre di cinque figli. Da Burgos, Bonifacio aveva portato la sua famiglia a Oristano, sulla costa occidentale dell’isola. Una città più grande, dove i suoi figli avrebbero potuto studiare e crearsi un avvenire. Ma con Burgos il legame della famiglia Tilocca era rimasto sempre molto stretto. Una volta in pensione, Bonifacio aveva deciso di fare ritorno nel suo paese natale, dove con regolarità i suoi figli andavano a trovarlo, soprattutto nelle giornate di festa.
Ma in realtà Bonifacio non è l’unico protagonista di questa vicenda che ha sullo sfondo il piccolo centro di Burgos. La sua storia, infatti, ruota attorno a un altro Tilocca, Peppino, uno dei suoi figli, un insegnante elementare e militante di Rifondazione Comunista che, nella primavera del 2000, decide di presentare alle elezioni amministrative una lista civica di centrosinistra. Solidarietà e progresso si chiama la lista, che Peppino, all’epoca poco più che quarantenne, capeggia come candidato sindaco. Il 16 aprile 2000, Peppino Tilocca diventa Sindaco di Burgos e subito prova a dare una sferzata all’azione amministrativa, deciso a incidere in profondità nel tessuto economico, sociale e culturale del paese e, con ciò, andando evidentemente a intaccare piccoli e grandi interessi, consuetudini e prassi ormai consolidate. Insomma, questo sindaco comunista che voleva cambiare le cose comincia a dare fastidio. E in una terra rude come questa, i conti si regolano in maniera strana.
Inizio delle minacce
I problemi cominciano a manifestarsi drammaticamente nel febbraio del 2002, quando un ordigno esplosivo vene piazzato nei pressi di casa Tilocca, a Burgos. È il primo di una serie di atti intimidatori che andranno avanti nei mesi successivi. Il 12 aprile dello stesso anno, la scena si ripete, con una nuova bomba che esplode davanti all’ingresso dell’abitazione di Bonifacio. Poi il 23 settembre è la volta della macchina di Peppino, distrutta da un attentato, questa volta a Oristano. Peppino e Bonifacio sono profondamente turbati da questi episodi. Il sindaco denuncia tutto alle Forze dell’Ordine, facendo nomi e cognomi di chi, secondo lui, ha ordinato ed eseguito quegli attentati. Sospetta che i suoi nemici si nascondano tra i suoi stessi compagni di partito, con alcuni dei quali ha rapporti estremamente tesi. Ma non si muove nulla, se non un rafforzamento delle misure di sorveglianza nei pressi di casa di Bonifacio. Peppino minaccia le dimissioni se dovesse accadere qualcosa a suo padre, che nel frattempo comincia a indagare autonomamente sugli atti intimidatori suoi e ai danni di suo figlio. Ma le minacce e la violenza non si fermano. Il 20 gennaio del 2004 a essere presa di mira è la tomba della moglie di Bonifacio, la madre di Peppino, profanata senza alcun rispetto. È un segnale allarmante, il segno che l’asticella della violenza si sta alzando e che ora punta diritta a colpire non più le cose, ma le persone. Bonifacio prosegue nelle sue indagini e ne consegna i risultati direttamente ai magistrati. Per i nemici di Peppino è probabilmente la goccia che fa traboccare il vaso.
Il 29 febbraio del 2004
Nella tarda serata di domenica 29 febbraio 2004 Bonifacio è a casa. Sono quasi le 23 e l’uomo probabilmente si trova già in camera da letto, al piano superiore dell’edificio di via Marconi dove vive, nella parte alta del paese. Una macchina dei Carabinieri passa dinanzi al portone d’ingresso e nota una bomba. Probabilmente attirato dalle urla dei militari, Bonifacio decide di uscire a dare un’occhiata, scende le scale e si incammina lungo il corridoio che conduce alla porta di casa. Piazzato con il chiaro intento di far male, l’ordigno esplode pochi secondi dopo. La deflagrazione è potentissima e l’onda d’urto investe in pieno il povero Bonifacio, che muore sul colpo, a 71 anni. Peppino ne è sconvolto, ma decide di non arretrare e di non dare seguito alle minacce di dimettersi. Resta in carica fino al maggio del 2005, naturale scadenza del suo mandato, anni durante i quali comunque il livello dello scontro non si abbassa. Il 26 settembre del 2005 anche la tomba di Bonifacio viene profanata.
Terminato il mandato di sindaco, Peppino decide di abbandonare per sempre la strada dell’impegno politico. Lascia anche Burgos e torna a dedicarsi anima e corpo alla scuola. Dell’impegno educativo fa la sua nuova missione. Partecipa al concorso per Dirigente Scolastico, lo supera e viene incaricato di guidare una scuola a Cabras, a pochi chilometri da Oristano. In questa scuola, e nelle altre in cui sarà trasferito negli anni seguenti, continua a dedicare ai temi della legalità e della lotta alle mafie tutte le sue energie. Lo fa, accompagnato anche dai volontari di Libera, portando nel cuore il dolore per la morte di suo padre, cui nessuno è stato in grado di restituire verità e giustizia. Ma anche la volontà e la determinazione di trasformare quel dolore in impegno, trasformando il ricordo di Bonifacio in una memoria viva e condivisa.
Vicenda giudiziaria
Le indagini si muovono in varie direzioni: dagli affari legati alla riforestazione alle assunzioni e ai contratti pubblici. Ma i riscontri non arrivano. Peppino è convinto che in paese in tanti sappiano, denuncia apertamente mandanti ed esecutori, stigmatizza un clima di omertà e complicità diffuse. Lui stesso insiste, indicando la pista da seguire, anche negli ambienti politici. Si becca pure una denuncia per calunnia. Ma niente, su chi abbia voluto la morte di Bonifacio e su chi abbia eseguito quella condanna non si avrà nessuna verità.
Memoria viva
A Bonifacio è dedicato il presidio di Libera di Anglona, in provincia di Sassari.
Noi familiari possiamo vivere una giornata come questa (21 marzo, ndr) da soli con rabbia oppure in piazza insieme a tante persone, e per questo vi ringrazio per la vostra presenza. La morte di mio padre è un elemento incancellabile, però oggi io posso essere qua in mezzo a migliaia di persone a parlarne, mentre chi ha ucciso mio padre deve stare zitto e nascosto. Noi possiamo sventolare le nostre bandiere, loro no. La qualità reale della lotta alla mafia è data dalla presenza e della partecipazione dei cittadini a giornate come questa. Oggi in Italia la Giornata della Memoria e dell’Impegno è stata celebrata in quattromila piazze, piene di gente viva che non solo ricorda ma dichiara il suo impegno per il futuro. Perché noi vogliamo essere l’esempio di una Italia migliore.