La logica che muove i fili di questa storia - ammesso che dietro una storia come questa ci possa essere una logica - è tanto assurda quanto tragica. È la logica tipica di quella cultura mafiosa, intrisa di violenza e sopraffazione, che non ammette la possibilità di veder violato l’onore del clan, soprattutto quando di tratta di chi lo comanda. La logica bestiale di chi crede di poter disporre della vita e della morte delle persone, decretando punizioni esemplari per chi non accetta di soggiacere, di piegarsi al dominio criminale. Anche quando si tratta di cose che, nella testa di persone “normali”, non avrebbero alcun valore. Ma qui di normale non c’è nulla. Se non la vita - onesta e, appunto, normale - di un ragazzo perbene di 20 anni appena, vittima incolpevole della barbarie della camorra.
Antonio Petito era l’ultimo di sette figli. Era nato nel 1982 e viveva con la sua famiglia a Casal Di Principe, in provincia di Caserta, regno incontrastato di quel maledetto clan dei casalesi che per anni ha rubato a questa terra finanche il nome di un popolo. Ma con quegli ambienti la famiglia Petito non aveva alcun tipo di rapporto. Anzi. Era una famiglia normale, di persone perbene, di onesti lavoratori. Come Antonio, che aveva scelto di aprire un'officina meccanica per sostenere le economie familiari. Un ragazzo che, anche a guardarlo oggi in foto, subito appare nella sua serena innocenza: gli occhiali rotondi, sovrastati da due sopracciglia marcate, a incorniciare un volto magro e pulito. Lui di quella cultura di violenza e di morte non aveva idea, semplicemente perché non gli apparteneva. Per questo, quella maledetta mattina di venerdì 8 febbraio 2002, non si fece scrupolo di mandare a quel paese un ragazzino di 13 anni, che gli aveva inveito contro per una banalissima questione di viabilità. Un episodio che non lo turbò più di tanto, neanche quando quel ragazzino gli si avvicinò per promettergli che entro quella giornata stessa sarebbe stato un uomo morto.
L’8 febbraio del 2002
Una promessa inquietante, a maggior ragione perché pronunciata da Gianluca “Nanà” Bidognetti, figlio di Francesco Bidognetti - alias Cicciotto e mezzanotte, potente boss del clan dei casalesi, all’epoca già recluso al 41 bis - e della sua seconda moglie, Anna Carrino. Tornato a casa, questo ragazzino già perfettamente intriso di cultura mafiosa, riferì dell’accaduto a sua madre. Quel Petito aveva avuto l’ardire di offenderlo, di mancargli di rispetto e, nella logica del clan, quello era stato un gesto che non poteva rimanere impunito. Così la donna convocò i vertici del clan, rivolgendosi direttamente al braccio destro di suo marito, Luigi Guida, e chiedendo che quella mancanza di rispetto fosse punita con la morte. Sulle prime, non tutti furono d’accordo e ci fu chi provò a farla desistere da quella soluzione ritenuta eccessiva persino da alcuni di loro. Ma si sa, gli ordini dei capi si rispettano, senza discutere. Il commando - in tutto tre persone - partì a bordo di un Audi A6 la sera stessa di quel giorno. Antonio era a bordo della macchina che gli aveva regalato suo padre, di ritorno dal lavoro, quasi sotto casa. Lo affiancarono e senza alcuna pietà uno dei killer gli sparò in faccia a distanza ravvicinata 12 colpi di calibro 9. Una barbarie senza fine, che spegneva nel fiore degli anni - appena 20 - la vita di un ragazzo onesto e perbene.
Vicenda giudiziaria
L’indagine fu archiviata poco tempo dopo: non un testimone, non un contributo che potesse aiutare il lavoro degli investigatori, alle prese con un caso difficile, perché Antonio non c’entrava nulla con quella gente e trovare le ragioni di una tale ferocia appariva davvero un’impresa ardua. Ci sono voluti più di dieci anni e le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia per fare luce sul movente e sui responsabili di quel delitto atroce. A parlare di questa storia furono la stessa Carrino e poi i collaboratori Emilio Di Caterino, Luigi Guida, Luigi Grassia e Massimo Iovine. Sono i loro racconti a ricostruire la vicenda, finalmente facendo luce su quello che era accaduto e sulle assurde ragioni di quella morte, decretata per lavare l’onore di Nanà Bidognetti, poi a sua volta finito in galera per il tentato omicidio di sua zia e sua cugina. Rivelazioni che portarono all’arresto di Giovanni Letizia, ritenuto l’autista del commando di fuoco, e di Nicola De Rolla e Gaetano Pagano, ritenuti invece gli esecutori materiali. I mandanti sarebbero stati la stessa Carrino e il reggente Luigi Guida. A fare da specchiettista invece sarebbe stato Emilio Di Caterino.
Il 26 novembre del 2013 arrivano le prime condanne: 16 anni per Guida, Carrino, Di Caterina e Grassia; ergastolo per Letizia. Condanne poi ridotte dalla Corte di Appello a 12 anni per Guida, 10 anni e 8 mesi per Grassia e Di Caterino, 19 anni e 4 mesi per Letizia. Assolto Luigi Verolla, in un primo momento ritenuto il custode delle armi e della macchina usata per la spedizione punitiva.
Gli avevo comprato un’auto nuova che teneva sempre pulita come uno specchio. Quel giorno con i tergicristalli stava pulendo delle macchie sui vetri. Sapevano tutti chi fosse stato e perché, ma nessuno parlò. Lo dissero solo dopo.
Memoria viva
L’8 febbraio del 2020, a 18 anni dalla morte di Antonio, lo stadio "Angelo Scalzone” di Casal Di Principe ha ospitato la manifestazione sportiva "Fai gol per la memoria". Una partita di calcio per ricordare questo ragazzo di 20 anni, vittima innocente della camorra casalese. A farsi carico di questa memoria viva - accanto ai suoi familiari - Libera, la Fondazione Polis, il Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti, il Comitato don Peppe Diana, la Federazione Antiracket e il Comune di Casale. E lì, in un angolo verde dello stadio, un leccio, che porta il nome di Antonio. Semi di speranza e di cambiamento.