Giuseppe Valarioti nasce a Rosarno il 1° marzo del 1950 da una famiglia di contadini, grandi lavoratori, una famiglia di origini umili e dai valori saldi, in cui Giuseppe impara sin da subito la dignità del lavoro.
Giuseppe, chiamato da tutti Peppe, è un ragazzo intelligente, generoso e sensibile, che sin dall’adolescenza si distingue per il suo impegno per promuovere la legalità e la tutela dei diritti, soprattutto quelli delle fasce più deboli e dei lavoratori. Indossa grandi occhiali, capelli castani e sguardo sincero, profondamente innamorato della sua terra e della cultura; crede infatti che la formazione e la cultura sono le uniche vere opportunità di emancipazione per i giovani del suo territorio. Decide così di voler fare il professore e, per realizzare il suo sogno, si iscrive prima al Liceo Classico “N. Pinzi” di Palmi, e poi alla facoltà di Lettere Classiche dell'Università degli Studi di Messina, dove studierà con impegno e dedizione. Si laureerà nel 1974 con il massimo dei voti, riuscendo all’età di soli 24 anni a diventare professore di italiano.
La missione educativa e l’impegno politico
Ottiene presto il suo primo incarico a scuola: è felice, orgoglioso ed è ben consapevole della responsabilità del suo ruolo. Così in classe Peppe non insegna solo l’italiano, ma parla del riscatto sociale per conquistare i diritti, della giustizia, della dignità e della tutela del lavoro, quello onesto e libero.
Peppe crede molto nella responsabilità personale e nella partecipazione: “Se non lo facciamo noi, chi deve farlo?", dice sempre ai suoi alunni e amici. Crede fermamente che sia necessario sporcarsi le mani con i bisogni delle persone e, soprattutto, considera la politica uno strumento formidabile per realizzare il bene comune e contrastare concretamente le mafie. Così decide di impegnarsi attivamente nella vita politica; si fa la tessera del Partito Comunista Italiano e, immediatamente dopo, diventa segretario della sezione di Rosarno.
Peppe ha capito che la 'ndrangheta si è infiltrata nella politica e che vuole inserirsi sempre più nei grandi affari e in qualsiasi cosa che possa far guadagnare denaro e potere. E infatti, in tutti i comizi elettorali Peppe, senza paura, grida che i rosarnesi non devono piegarsi allo strapotere della ‘ndrangheta e, lo stesso appello alla ribellione lo lancia anche contro i comitati di affari, che in questi anni in Calabria dominano e continuano a dettare legge.
Peppe individua nel lavoro e nel welfare il vero antidoto allo strapotere dei clan. La sua vita è caratterizzata da una precisa identità ideale coltivata fin dai primi anni di impegno politico e sociale, che lo porta a indagare e approfondire il ruolo del movimento bracciantile, protagonista nei decenni precedenti di conquiste fondamentali per i diritti delle donne e degli uomini della sua terra. È quindi protagonista nelle lotte per il lavoro, nella Piana di Gioia Tauro, durante tutti gli anni ’70 e partecipa attivamente alla costruzione delle “Leghe dei giovani disoccupati”.
Nel 1979 viene eletto nel consiglio comunale di Rosarno.
Ma accanto all’impegno politico, Peppe coltiva anche la passione per la ricerca storica e archeologica, ritiene che siano gli strumenti fondamentali per evidenziare l’immensa storia greca da cui la sua terra proviene; segno, anche questo, del suo attaccamento e profondo amore per i luoghi dov’è nato e vissuto.
L’impegno contro la ‘ndrangheta
Durante la gestione di Peppe, il PCI avvia una campagna di risanamento interno, soprattutto nella cooperativa “Rinascita”, che è collaterale al partito. In questi anni infatti, le cooperative agricole sono spesso obiettivi sensibili della ‘ndrangheta, che punta a drenare i sussidi europei e nazionali garantiti ai produttori. Per negligenza, perché corrotti, perché ingenui o semplicemente per paura alcuni dirigenti della “Rinascita” non avevano arginato i tentativi di inquinamento portati avanti dalle cosche rosarnesi. Peppe, invece, proverà subito a invertire la rotta. Un tentativo che certamente lo esporrà notevolmente, infatti, nonostante la gran parte del partito lo segue nel nuovo corso politico, all’esterno Peppe figura come elemento centrale dell’attacco alla ‘ndrangheta, nel bene e nel male.
Ma quello della cooperativa non è certo l’unico fronte aperto. Ci sono le prese di posizione sulle concessioni edilizie, gli scontri violenti in consiglio comunale con i membri del PSI al governo cittadino, le dichiarazioni pubbliche e gli accesi comizi.
La campagna elettorale del 1980
Il 1980 è un anno decisivo per la svolta politica della ‘ndrangheta in tutta la Regione e a Rosarno in particolare. I clan infatti sanno che non è più sufficiente conservare il controllo del territorio con la forza militare in grado di incutere timore nella popolazione, bisogna infiltrarsi nell’amministrazione del territorio, fino a determinarne le scelte. E bisogna farlo fino al punto di avere nelle assemblee elettive i propri diretti rappresentanti. Infatti, Giuseppe Pesce, il patriarca della ‘ndrina locale, nonostante sia destinatario di un provvedimento di polizia consistente nell'obbligo di dimorare in un luogo lontano da quello abituale di residenza, riesce a presenziare alla campagna elettorale del maggio-giugno grazie a un permesso per la malattia della madre, prolungato ad arte per alcune settimane. Una presenza che alimenterà notevolmente la tensione. In pochi giorni l’auto di Giuseppe Lavorato – consigliere comunale e maestro politico di Peppe - viene data alle fiamme, i manifesti del Pci vengono scollati e riattaccati al rovescio - segnale diretto e indiscutibile di minacce - ci sarà un attentato (che fortunatamente non produrrà l‘effetto desiderato) alla sede del partito, in un clima di tensione costante a causa delle minacce continue. Appare quindi chiaro che è una tornata elettorale decisiva e Peppe, seppur consapevole dei rischi che corre, non vuole sentire ragioni, nessun passo indietro. La sua campagna elettorale è tutta fondata sulla denuncia delle collusioni tra politica e 'ndrangheta e votata all’ascolto dei bisogni dei giovani e delle fasce sociali più deboli e povere. Nei comizi attacca a spada tratta, facendo anche nomi e cognomi dei mafiosi. E il 25 maggio, il giorno del funerale della madre di Giuseppe Pesce, risponde alle intimidazioni subite con un comizio in cui pronuncia parole di sfida aperta: "Se pensano di intimidirci non ci riusciranno! I comunisti non si piegheranno". Un affronto impensabile per il capo clan.
Dopo più di due mesi di accesissima campagna elettorale, il voto premia la linea dura di Peppe; il PCI otterrà la maggioranza dei consensi elettorali, mettendo in crisi i clan e il Partito socialista locale - partito che dalle successive indagini risulterà essere contenitore dei voti della ‘ndrangheta.
L’11 giugno del 1980
L’esito di quel voto a Rosarno dimostra che la ‘ndrangheta può essere messa all’angolo, che ci può essere un’alternativa al potere e al condizionamento mafioso. Ma il prezzo da pagare sarà altissimo.
I vertici della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro non possono accettare una sconfitta così cocente e importante a Rosarno. Non reagire minerebbe la forza intimidatrice e, quindi, la credibilità costruita sul territorio e nelle istituzioni grazie a collusioni ben consolidate. E così, la loro risposta sarà immediata.
È la notte tra il 10 e l’11 giugno del 1980, Peppe è con i suoi compagni in un ristorante di Nicotera, nel Vibonese, per festeggiare la vittoria alle elezioni amministrative. È da poco passata la mezzanotte quando, terminata la cena, Peppe e tutti i suoi compagni escono dal locale. Peppe è il primo, apre la porta del ristorante con ancora gli occhi raggianti per la vittoria e i pensieri già proiettati al lavoro che dal giorno successivo lo attende per mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale e per realizzare quel cambiamento tanto sognato. Quando, all’improvviso, viene raggiunto da colpi di lupara. Sono momenti drammatici, in cui si passa dalla felicità per una straordinaria vittoria elettorale alla tragedia di quei colpi di fucile sparati con freddezza dai killer. Accade tutto velocemente, sono momenti concitati, Peppe ha solo il tempo di chiedere aiuto ai compagni prima di accasciarsi al suolo. Viene subito caricato in auto per essere portato all’ospedale di Polistena, ma quella corsa contro il tempo si rivelerà inutile: Peppe morirà durante il tragitto, tra le braccia del suo amico fraterno Peppino Lavorato.
Peppe viene ucciso perché la ‘ndrangheta non può accettare che il Partito Comunista si frapponga al suo tentativo di impadronirsi delle assemblee elettive e delle istituzioni, impedendogli di infiltrarsi e governare la Cosa Pubblica, e di intercettare e accumulare le ingenti risorse di denaro pubblico destinate a quel territorio.
Professore precario, politico e soprattutto, uomo giusto e onesto, che dà un contributo importante nelle lotte per il lavoro e per i diritti per i cittadini della Piana di Gioia Tauro, viene ucciso, a soli 30 anni, per aver saputo tenere la testa alta di fronte allo strapotere della ‘ndrangheta.
Vicenda giudiziaria
Giuseppe Pesce verrà accusato dal PM di essere il mandante dell’omicidio di Peppe, ma verrà assolto per insufficienza di prove.
Qualche anno dopo, grazie alle rivelazioni del pentito Pino Scriva, emergerà il ruolo di altri pericolosi ‘ndranghetisti: oltre a Pesce infatti, ci sono Giuseppe Piromalli e Sante Pisani. Il presunto esecutore materiale, Francesco Dominello, è però, intanto, morto e anche l’inchiesta bis non approderà a nulla: sarà anch’essa archiviata per insufficienza di prove e le dichiarazioni di Scriva non saranno nemmeno utilizzate nel processo d'appello contro Giuseppe Pesce, poiché non sono state trasmesse alla Procura Generale di Reggio Calabria, né daranno vita a un autonomo processo. Pesce, poi deceduto nel 1992, sarà definitivamente assolto per l'omicidio.
Nonostante nel marzo 2011 si sia costituito un comitato per la riapertura delle indagini sul caso Valarioti, a oggi il delitto resta ancora senza giustizia.
Memoria viva
Alla memoria di Peppe Valarioti è intitolato il Presidio di Libera di Sesto San Giovanni, in provincia di Milano.
A distanza di quarant’anni dall’omicidio di Peppe, il primo omicidio politico della Calabria, un gruppo di studenti, ricercatrici e ricercatori calabresi sparsi per l’Europa, ha deciso di formare un collettivo che porta il suo nome, per tenere viva la sua memoria, raccogliendo il testimone e l’eredità di un uomo che ha dato la vita per la giustizia e per provare a liberare la sua amata terra.
A Peppe Valarioti la casa editrice Round Robin dedica un libro, “Il caso Valarioti”, scritto da Danilo Chirico e Alessio Magro.
Peppe vive nella lotta per gli ideali di libertà e giustizia, per i quali sacrificò la sua giovane esistenza. Amò Medma e la sua storia antica. La difese e la voleva valorizzare per la elevazione culturale del nostro popolo e per il lavoro che poteva far nascere. Amò la musica, le arti, la bellezza, che voleva fossero godute da tutti e soprattutto dagli umili. Amò i braccianti, i contadini, gli agricoltori, non solo perché da essi nacque. Ma per la loro fatica, le loro sofferenze. Sapeva come vivevano molti di loro.