6 novembre 2004
Napoli (NA)

Antonio Landieri

Correre. Forse mai come in quel momento Antonio avrebbe voluto correre. Forse mai come in quel momento avrà avvertito il peso di quella disabilità che gli impediva di farlo. Perché in fondo, nonostante quella disabilità, lui era cresciuto sereno, circondato dall'affetto di una famiglia unita, che lo ha amato dal primo all'ultimo respiro.

Una famiglia forte, che ha sopportato la calunnia, e l’infamia; che ha lottato senza sosta per ristabilire la verità, per ottenere giustizia, per affermare che Antonio era innocente. Che lui, con chi ha insanguinato le strade di Scampia, non aveva mai avuto nulla a che fare. Che quella morte assurda era l’ennesima ferita aperta nel cuore della città.

Antonio Landieri era nato a Scampia, ai Sette Palazzi. Così lo chiamano questo quartiere diventato negli anni il simbolo del degrado e del dominio della camorra, che qui fa affari milionari spacciando droga e seminando morte e terrore. Era nato qui, il 26 giugno del 1979, da Vincenzo e Raffaella. Una famiglia onesta, che sin da subito si era presa cura di questo ragazzo e del suo bisogno di attenzioni particolari. Antonio, infatti, a causa di alcune complicanze nel parto, era stato colpito da una paralisi infantile che gli aveva procurato serie difficoltà motorie. E tuttavia era cresciuto sereno. Era un ragazzo normale: sognava come tutti, amava la vita come tutti, aveva i suoi progetti, i suoi desideri, le sue speranze. Faceva fatica a camminare, ma in fondo per lui non era più un problema. Non lo era mai stato, fino a quel maledetto sabato. 

Il 6 novembre del 2004

Il 6 novembre del 2004 Antonio era uscito di casa e aspettava con un gruppetto di cinque amici che la comitiva si componesse al completo per andare a mangiare una pizza. Lo facevano spesso il sabato. Il quartiere del resto non è che offrisse chissà quali opportunità. Poca, pochissima roba oltre all’unica attrazione che attirava lì centinaia di persone, a ogni ora del giorno e della notte: la droga. Un traffico ininterrotto di dosi che arricchiva a dismisura i clan. E che faceva gola, generava contrasti, guerre e morti ammazzati. Da qualche tempo la situazione era addirittura peggiorata. Gli equilibri interni al clan Di Lauro, che dominava le piazze di spaccio, si erano incrinati. Ne era nata una vera e propria faida tra il clan storico dei Di Lauro e gli Scissionisti, un gruppo che aveva deciso di rompere quell’equilibrio e provare ad affrancarsi. La prima faida di Scampia è stata questo: una guerra tra ex alleati che ha lasciato a terra decine di vittime. 

Droga, guerre, affari. Antonio, come tutti lì, lo sapeva ed era costretto a conviverci. Ma lui era di un’altra pasta. Perché ai Sette Palazzi ci viveva, e ancora ci vive, tanta gente perbene, vittima di un’etichetta che, per carità, racconta un pezzo di verità. Ma un pezzo, appunto. Perché c’è tanto altro, ed è tanto altro di buono. 

Erano circa le 20 di quel sabato sera di inizio novembre. Nel circoletto di via Labriola, dove spesso si ritrovavano, Antonio stava giocando con gli amici a calcio balilla. Il rumore della pallina che sbatte sulle pareti del biliardino si confondeva con le urla di incitamento tipiche di quelle partitelle. È un rumore di fondo che tutti nella vita hanno ascoltato, perché quando si gioca a biliardino non si può farne a meno. A Scampia come ovunque. 

A Scampia, però, può succedere che, a un certo punto, quel rumore si confonda con il suono cupo e sordo dei colpi di pistola. Arrivarono in quattro a bordo di un auto. Erano tutti appartenenti al clan degli Spagnoli, gli Scissionisti appunto. Fu un’azione fulminea. Cominciarono a sparare all’impazzata, convinti di colpire un gruppo di spacciatori della fazione opposta. Ma si sbagliavano, perché quei ragazzi che giocavano non erano quelli che cercavano. Nella fuga, molti di quei ragazzi furono colpiti alle gambe e rimasero feriti. Ma riuscirono a scappare, perché potevano correre. Antonio no, lui non poteva correre. Appunto. Chissà quanto lo avrebbe voluto in quel momento. Fu colpito alla schiena da due pallottole. Quando arrivarono i soccorsi - compresi i suoi familiari - Antonio respirava ancora, ma si capiva che le ferite erano molto gravi. Spirò poco più tardi, appena arrivato all’ospedale Don Bosco. Morì così, a 25 anni, diventando la prima vittima innocente con disabilità della camorra. Un primato odioso per una morte assurda.

Il calvario di mamma Raffaella e papà Vincenzo - così come quello di suo fratello Giuseppe e sua Sorella Stefania - tuttavia era appena cominciato. Perché non bastò il dolore della morte, ci fu pure il sale dell’infamia su quella ferita. Per troppo tempo Antonio fu raccontato come un criminale, uno che se l’era cercata, uno che con quella gente ci aveva a che fare. Gli furono addirittura negati i funerali pubblici. Dolore su dolore, sofferenza su sofferenza. 

 

Vicenda giudiziaria

Ci sono voluti dieci anni buoni per ristabilire la verità. Dieci anni di battaglie quotidiane per spazzare via tutti i dubbi, tutte le cattiverie, tutti gli schizzi di fango. Solo nel gennaio del 2015 finalmente Antonio è stato riconosciuto vittima innocente della camorra: lui non era uno spacciatore, lui con la camorra non c’entrava niente. 

Ma il 2015 è un anno cruciale non solo nella battaglia per la verità sull’innocenza di Antonio. C’era un’altra battaglia, altrettanto importante, che bisognava combattere fino in fondo, ed era quella per ottenere giustizia. Nel settembre del 2015, appunto, Gennaro Notturno, esponente di spicco del gruppo scissionista, decide di collaborare con la giustizia. Le sue dichiarazioni forniscono agli inquirenti una serie di elementi fondamentali per ricostruire l’accaduto. Così, il 23 gennaio del 2016, scattano gli arresti. Con Notturno, finiscono dietro le sbarre Cesare Pagano, Giovanni Esposito, Davide Francescone e Ciro Caiazza. Il primo è accusato di essere il mandante della spedizione di morte ai Sette Palazzi, gli altri invece sono indicati come gli esecutori materiali. Nell’ottobre del 2018, il processo di primo grado si conclude con la condanna all’ergastolo di Esposito, Francescone e Caiazza. DIciassette anni vengono comminati a Gennaro Notturno e a Pasquale Riccio. Assolti invece Cesare Pagano e Giovanni Piana. Nel settembre del 2021, in sede di appello, vengono confermate tutte le condanne, con una leggera riduzione della pena per Riccio.

Memoria viva

La morte di Antonio Landieri ha generato significativi frutti di impegno. Sono frutti di una memoria viva in grado di disegnare, a Scampia e in molti altri luoghi d’Italia, rotte di riscatto e cambiamento. La sua storia è raccontata nel libro “Al di là della neve”, pubblicato nel 2007 e diventato poi anche un reading teatrale - scritto a soli 17 anni da suo cugino Rosario Esposito La Rossa, che oggi dirige due diverse case editrici e continua a lavorare sul territorio. Nello stesso anno è nata l’associazione Vo.di.Sca. - acronimo di Voci di Scampia - dedicata alla sua memoria, un'associazione di giovani del quartiere, che svolgono attività di recupero e promozione culturale. L’associazione ha creato una biblioteca popolare per i ragazzi del quartiere, inaugurata nel 2012 nel Teatro Area Nord di Napoli, viene dedicata ad Antonio Landieri.
Nel 2013 viene organizzata la prima edizione di "Libera in Goal", torneo di calcio in collaborazione con Libera presso l'ArciScampia per ricordare il giovane Antonio Landieri. 
A lui sono dedicati, oltre allo Stadio comunale di Scampia, il bene confiscato Cascina Arzilla di Volvera, in provincia di Torino, e i Presidi di Libera di Aosta, Ovada (AL), Teano (CE) e Scampia. Raffaella e Vincenzo, accompagnati dal Coordinamento campano dei familiari delle vittime di criminalità e da Libera, continuano a impegnarsi per mantenere viva la memoria di Antonio.

"Un nome, una storia - Mi chiamo Antonio Landieri". A cura del Presidio di Libera Chieti "Attilio Romanò".