Bruno Vinci nasce il 10 ottobre del 1943 a Serra San Bruno, paese immerso nel cuore dell’Appennino calabro. La famiglia di Bruno è numerosa: papà Michele e mamma Barbara mettono al mondo undici figli. La situazione economica non è rosea, sono questi gli anni in cui in molti dalla Calabria migrano, solcando gli oceani, in cerca di fortuna. Così anche Bruno, non appena diventato ragazzo ci prova e raggiunge il Canada ed è proprio lì che incontra Giuseppina, anche lei figlia di emigrati calabresi. I due ragazzi s’innamorano e nel 1969 si sposano e mettono su famiglia a Welland, nell’Ontario, a pochi minuti dalle cascate del Niagara. Dal loro amore nascono presto due bambini, Michelino e Barbara. Bruno è un bel ragazzo, alto, bruno, sguardo profondo e un bellissimo sorriso sempre stampato sul volto. Lavora il legno, è un esperto falegname e ha un buon posto di lavoro. La vita di Bruno e Giuseppina è una vita tranquilla, apparentemente perfetta. Ma a Bruno manca la sua amata terra, le sue origini e le sue tradizioni, vive con nostalgia i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza e sogna di potervi fare ritorno.
Il ritorno a Serra San Bruno
Sua moglie Pina comprende questo desiderio profondo, così, nel 1978, fanno ritorno in Calabria. Anche qui Bruno manda avanti la famiglia facendo il falegname, mentre sua moglie apre un piccolo negozio di articoli sportivi, specializzato in articoli per la caccia e la pesca.
Bruno ritrova gli affetti di un tempo, i luoghi della sua infanzia, i colori e i profumi della sua terra. Sogna di costruire una casa in legno per i suoi bambini e ama la fotografia, così scatta tante foto da custodire come preziosi ricordi di famiglia. Ama anche la pesca Bruno, passione che trasmette a suo figlio Michelino.
14 aprile 1980
Ma tutto questo verrà improvvisamente interrotto in un giorno di aprile che sembra essere uno come tanti altri ma che, invece, nasconde un tragico destino. È il 14 aprile del 1980, è pomeriggio ma il sole è alto. Bruno si reca nella gioielleria dei suoi fratelli, Francesco e Domenico, in Piazza San Giovanni, proprio sul corso principale del paese. È felice di poter trascorrere del tempo con loro, quando era in Canada gli mancavano molto e adesso, appena può, passa in negozio per trascorrere del tempo insieme e quel giorno ha anche un motivo in più per andare da loro: ha degli orecchini di sua figlia Barbara che devono essere cambiati. I tre fratelli parlano e scherzano tra loro e non si rendono nemmeno conto che davanti al loro negozio si ferma una Fiat 127 di color amaranto. All’interno tre uomini, tutti con il volto scoperto. Uno resta in auto. Due scendono, fanno irruzione, sparano: esplodono dieci colpi impugnando pistole calibro 7.65. In pochi secondi è il caos ma Bruno vuole salvare sé stesso e i suoi fratelli e così, istintivamente, oppone resistenza ai due uomini. Uno dei due allora lo immobilizza e l’altro, senza esitazione, per punirlo, gli spara due colpi diretti a organi vitali, ferendolo mortalmente. Il fratello Domenico viene colpito dalla pioggia di fuoco e alcuni proiettili gli sfiorano la testa, ma sopravvive.
A nulla serviranno i soccorsi, Bruno muore sul colpo mentre sua moglie e i suoi due bambini sono poco distanti da lì, nel loro negozio di articoli sportivi, ignari di quello che sta accadendo. Non appena arrivano i Carabinieri e i soccorsi Barbara, di appena 7 anni, viene fatta allontanare e portata a casa sua con una cuginetta, con una banale scusa. Michelino invece, di appena 9 anni, riesce a fuggire ed esce dal negozio per raggiungere il papà nella gioielleria dello zio. Una volta lì vede tanta gente muoversi in maniera concitata, ma la sua attenzione è subito attratta da un lenzuolo bianco che copre un corpo steso a terra. Un braccio di quel corpo è rimasto fuori dal perimetro della tela, un braccio che Michelino riconosce subito per via del giubbotto che indossa: è il giubbotto di papà Bruno!
Vicenda giudiziaria
I carabinieri della locale Compagnia sin da subito fanno il possibile per assicurare alla giustizia gli assassini e, sin dal primo momento si rendono conto che quella non è stata una rapina finita male, ma è stato un agguato vero e proprio. Una vendetta. E così affiorano le ombre che turbavano Serra e le vite dei fratelli Vinci prima del ritorno di Bruno dal Canada. Era il 16 febbraio del 1975 quando la stessa gioielleria era stata teatro di un’altra sparatoria. All’interno c’era Francesco Vinci, due uomini armati entrano e intimano di consegnare soldi e gioielli. Ma anche Francesco è armato, possiede un’arma per difesa personale. In quel preciso istante sente che la sua vita è in pericolo, tira fuori la pistola e nel giro di pochi secondi scoppia un conflitto a fuoco. Francesco sopravvive. A terra invece, esanime, resta uno dei rapinatori: è Rocco Ursini, è un mafioso di Gioiosa Ionica, il centro della Locride. Rocco Ursini muore, Vincenzo Cutrone, il suo complice, resta ferito. A riconoscere il cadavere giunge Domenico Macrì, un pezzo da novanta della criminalità organizzata di Gioiosa. Non si fa scrupoli delle autorità presenti e così Macrì promette vendetta.
Bruno è una vittima innocente della criminalità organizzata. Ne sono certi i Carabinieri, che hanno gli elementi giusti per dare impulso alle indagini. Il primo indiziato per l’omicidio di Bruno e il tentato omicidio di Domenico è Mario Ursini, che negli anni successivi diventerà un boss di primissimo piano tra la Calabria e il Piemonte. Il secondo sospettato è Salvatore Sainato, considerato esponente di spicco della ‘ndrangheta, elemento di collegamento tra le cosche della Locride e quelle della dorsale delle Serre. Il terzo è Rocco IIritano, un ragazzo non ancora maggiorenne. Gli elementi racconti dagli inquirenti a loro carico, però, non bastano. E così il 17 marzo del 1982 il giudice istruttore di Vibo Valentia dichiara di non doversi procedere. Nel luglio successivo, anche la Corte d’Appello di Catanzaro riconosce l’insufficienza di prova per Ursini e sancisce di non doversi procedere per non aver commesso il fatto per Sainato e Ilritano. La morte di Bruno Vinci resterà così impunita.
Io con Libera mi sono veramente liberata. Venivo fuori da trent’anni di silenzio, con una storia personale difficile e il disagio interno che provoca la non esistenza. Mi è stato chiesto di raccontare e finalmente ho iniziato con grande difficoltà ad aprirmi al mondo e a riappropriarmi della mia vera storia. Questa scelta è stata condivisa subito con tutta la mia famiglia.
Ma mio fratello ascolta e piange. Mamma mi è vicina ma affida a me il suo dolore. Dopo aver fatto questa esperienza all’esterno mi sono resa conto che riuscivo a parlare di mio padre anche con i miei cari. E tutti abbiamo condiviso il nostro dolore che prima ognuno viveva silenziosamente e in solitudine. Per noi “Libera” è stata una sorta di terapia, ci ha aiutati a uscire dall’isolamento e a ritrovarci tutti. La prima volta non è stato facile perché sentire tutte quelle storie drammatiche, non può lasciare indifferenti. Ma poi mi ha aiutato moltissimo.