L’idea che quella di Messina fosse una provincia “babba”, estranea alle dinamiche criminali e agli interessi mafiosi, ha resistito per molti anni, generando di fatto in molti ambienti un clima di sostanziale sottovalutazione che ha fatto molti danni in terra di Sicilia e non solo. Una lettura superficiale che non ha tenuto in alcuna considerazione eventi e fatti, di cronaca giudiziaria e di cronaca nera, che invece hanno sempre raccontato altro. Il maxiprocesso alla mafia messinese, partito nell’aprile del 1986, è uno di questi fatti. Il brutale assassinio dell’avvocato Nino D’Uva, uno dei principali protagonisti di quel processo, un altro, inscindibile dal primo. Eppure entrambi questi fatti sono stati troppo a lungo sottovalutati. Se non addirittura dimenticati.
Nino D’Uva era nato a Livorno il primo giorno del 1925. I suoi genitori si erano trasferiti in Toscana per motivi di lavoro, ma tornarono in Sicilia quando Nino aveva ancora 10 anni. Era un ragazzino sveglio e appassionato, attratto dalla cultura e dalla conoscenza. Frequentò il Liceo Classico Dante Alighieri per poi iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza, da dove uscì laureato, con lode e la pubblicazione della tesi, ad appena 21 anni. Crebbe con la passione per la letteratura, i libri, la musica, il teatro. Attratto da ogni forma di cultura e di conoscenza, si rivelò col tempo un uomo profondamente colto, un intellettuale raffinato. Coltivava con intensità le sue passioni e, parallelamente, accresceva, grazie alle sue doti, il suo prestigio e la sua fama di professionista serio e preparato. La carriera forense esercitava per lui un fascino profondo. Scelse dunque di inseguirla, divenendo uno dei più noti avvocati penalisti del foro messinese, rigoroso quanto irreprensibile sul piano morale. Il matrimonio con Mariuccia Germanà gli portò in dono due figli, Giuseppina, che crebbe nel solco dell’esempio paterno intraprendendo gli studi in giurisprudenza e Gennaro, che scelse di studiare medicina. Quella di Nino insomma era una vita tranquilla, che si nutriva degli affetti familiari, delle passioni e degli interessi personali e di tante soddisfazioni professionali.
Soddisfazioni che del resto non mancarono neanche sul piano familiare. Giuseppina divenne be presto un affermato magistrato in servizio a Palmi, dove si occupò di alcuni importanti processi di ‘ndrangheta prima di transitare nel civile e diventare giudice delegato ai fallimenti. Anche suo marito, Melchiorre Briguglio, era un magistrato, in forza alla sezione penale del Tribunale di Reggio Calabria. Questo filo rosso che lega la Sicilia e la Calabria, attraversando la vicenda familiare di Nino, sarà un elemento determinante nel destino di questo professionista di valore.
Lo studio legale di Nino D’Uva si trovava nel pieno centro storico di Messina, in via San Giacomo, a due passi dal Duomo. Era attiguo alla casa di famiglia, al terzo piano di un elegante palazzo liberty, vicino il settecentesco Palazzo Calapaj - d’Alcontres. Ed era qui, nel suo ufficio, che Nino si trovava quel maledetto martedì 6 maggio 1986. Poco meno di un mese prima, il 14 di aprile, era cominciato, nell’aula bunker del carcere di Gazzi, il maxiprocesso contro la mafia messinese. Alla sbarra c’erano 283 imputati, accusati di associazione mafiosa e traffico di droga, tutti esponenti di spicco delle quattro cosche che si dividevano la città. Una ventina di imputati avevano scelto proprio lui come difensore. Fu un processo estremamente complesso, accompagnato da un pesantissimo clima di tensione in aula, fatto di urla, insulti, minacce, gesti eclatanti rivolti anche agli stessi difensori. Istruito grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Insolito, era il secondo maxiprocesso alle cosche messinesi, dopo il cosiddetto “Processo dei 69” che aveva fatto luce sulle dinamiche mafiose a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. In questo clima, Nino D’Uva aveva assunto una posizione di grande responsabilità e professionalità, provando a porsi come elemento di mediazione tra la corte e gli imputati. Ma la tracotanza dei mafiosi non aveva - e non avrebbe - risparmiato neanche lui.
Il 6 maggio del 1986
Tra le 19 e le 20 di quel 6 maggio ’86, qualcuno bussò allo studio dell’avvocato D’Uva. Nino gli aprì senza problemi, evidentemente conoscendolo. La tragedia si consumò nel giro di pochi minuti. Entrando nello studio, l’assassino raccolse un cuscino dal divano. Nino era seduto sulla sua sedia girevole, nell’atto di fare una telefonata. Il killer lo raggiunse alle spalle. Utilizzando il cuscino come silenziatore, esplose un unico colpo di una calibro 7,65 con una precisione quasi chirurgica, tra la nuca e l’orecchio, uccidendolo sul colpo. Poi lasciò l’ufficio, gettò la pistola in un cassonetto, salì a bordo di una Mini verde su cui lo aspettava un complice e si dileguò. Intorno alle 20, Edoarda Lanza, la colf ventiseienne di casa D’Uva, tornando per preparare la cena, notò la porta dello studio socchiusa. Chiamò l’avvocato e, non avendo risposta, entrò. Il corpo di Nino, allora sessantunenne, era riverso ai piedi della poltrona, in una pozza di sangue.
Vicenda giudiziaria
La telefonata che dava l’allarme arrivò in Questura alle 20.10. Immediatamente scattarono una serie di controlli e perquisizioni a tappeto in tutta la città. Ma nulla. Era solo l’inizio di un percorso investigativo definito dagli inquirenti stessi “un complesso rompicapo”. Nessuna pista fu trascurata. A cominciare dal telefono che Nino stringeva ancora nella mano destra quando fu trovato morto. A chi stava telefonando? I tecnici della compagnia telefonica accertarono che aveva fatto in tempo a comporre solo i primi tre numeri, che coincidevano con quelli della Squadra Mobile. Ma si scoprirà in seguito che il numero era quello di un collega, cui l’avvocato stava telefonando per concordare una causa di separazione. Comporre le tessere di quel mosaico apparve immediatamente estremamente difficile, anche se agli investigatori apparve naturale scandagliare anzitutto la vita professionale dell’avvocato. Qualcuno mise in evidenza quasi immediatamente che, dietro quell’omicidio, potesse nascondersi la volontà di costringere a una battuta di arresto il maxiprocesso. Letto con il senno di poi, l’esito di quel processo - 65 condanne e 180 assoluzioni, con pene comminate per 394 anni di carcere a fronte dei 1020 chiesti dall’accusa - fanno apparire fondate quelle voci. E tuttavia i riscontri erano quasi insignificanti, comunque insufficienti a far fare un passo avanti decisivo alle indagini. Il fascicolo cominciò a raccogliere polvere. Fino al gennaio del 1993.
La svolta arrivò con le dichiarazioni di Umberto Santacaterina, un collaboratore di giustizia, che raccontò del coinvolgimento diretto di Gaetano Costa, l’ultimo vero padrino della mafia messinese, indicato come mandante dell’omicidio di Nino D’Uva, insieme al suo luogotenente Mario Marchese. Detenuto nel carcere dell’Asinara, lo stesso Costa - si sarebbe saputo dopo - si era autoaccusato dell’omicidio. A sparare sarebbe stato un ragazzo di 19 anni, Placido Dino Calogero. A muovere gli assassini, la volontà di dare un segnale agli avvocati difensori nel maxiprocesso, ritenuti troppo morbidi.
Ma non è tutto. Un anno più tardi, a 14 anni dall’assassinio, le rivelazioni di Santacaterina si agganciano a quelle di un altro collaboratore di giustizia di peso, il calabrese Pasquale Barreca. L’uomo racconta di avere appreso del ruolo fondamentale, nella morte dell’avvocato, del boss della ‘ndrangheta Natale Iamonte, capo della ‘ndrina di Melito Porto Salvo, condannato a 7 anni a Reggio Calabria, al termine di un processo nel quale aveva avuto un ruolo il genero di Nino D’Uva, Melchiorre Briguglio. Forse mosso dalla volontà di orientare l’esito del processo, Iamonte aveva inviato alcuni parenti a Messina a chiedere a D’Uva di difenderlo, ottenendone un netto diniego. Quel rifiuto Iamonte lo prese come un affronto e, dalla cella, affidò a due suoi accoliti la richiesta di far uccidere D’Uva da Gaetano Costa.
Messe insieme, le dichiarazioni dei collaboratori fecero luce anche su altri dettagli. Come il segnale di morte, affidato a una scarpa lanciata verso l’avvocato durante il processo nell’aula bunker di Messina e raccolto dal giovane killer nascosto tra il pubblico. O sul nome dell’autista, tale Giuseppe De Domenico.
Le due piste - quella messinese e quella calabrese - furono alla fine unificate e il processo trasferito a Catania. Il 7 dicembre del 1995, la sentenza di primo grado condannò all’ergastolo Iamonte, Calogero e De Domenico. Quindici anni invece per Costa. Pene poi ridotte rispettivamente a 24 anni, 23 anni e mezzo, 21 anni e 12 anni in appello, con una sentenza del 26 gennaio 1998, confermata integralmente dalla Corte di Cassazione il 4 gennaio del 1999. La famiglia si costituì parte civile in tutti i processi.
Memoria viva
La testimonianza di Nino, forse per molti anni dimenticata, vive oggi in molte iniziative di memoria. Il suo nome, campeggia, tra l’altro, su una lapide nella Corte d’appello di Messina. Nel marzo del 2006, su iniziative di alcuni giovani avvocati, è nata l’associazione culturale forense che ne porta il nome e che si prefigge l'obiettivo di coniugare legalità e cultura, proprio nel solco dell'insegnamento dell’avvocato D’Uva, cui è intitolata anche l’aula degli avvocati del Tribunale di Sorveglianza di Messina. Nel 2018 la Herald editori insieme all'Ordine degli avvocati di Roma ha pubblicato il libro “Tributo di Toga – Le vittime nell’Avvocatura 1948 – 2018”, in cui si racconta la storia dell'avvocato D'Uva.
Sono orgogliosa di averlo avuto come padre. Ha amato arte, teatro, musica e poesia. Aveva chiaro in mente il ruolo dell'avvocato: un professionista che deve difendere fino allo stremo il suo cliente, attaccandosi a tutti i cavilli che la legge gli dà, ma senza mai scendere a compromessi. A tutti i nostri giovani l’augurio di vivere con pienezza la loro vita come ha fatto lui.