Nel 1975 Pinuccia, così la chiamavano, ha solo tre anni. Ne avrebbe potuto fare tante di foto se solo le avessero lasciato il tempo di crescere, di diventare una donna. Invece Pinuccia ha conosciuto la cieca violenza mafiosa a tre anni. Una violenza che le ha spento per sempre quel sorriso innocente dal volto. A soli tre anni.
San Giovanni di Sambatello è lontano poco più di sette chilometri da Reggio Calabria, del cui territorio pure fa parte. È una piccola frazione di Reggio, ai piedi dell’Aspromonte. Qui, nel 1975, vive la famiglia di Sebastiano Utano, classe 1950. Seppur giovane, Sebastiano è ritenuto uomo di mafia. In particolare, negli anni era riuscito a conquistarsi la fiducia di Domenico Tripodo, per tutti don Mico, di cui era diventato accompagnatore e autista. Una sorta di guardaspalle di questo boss della ‘ndrangheta finito nel mirino delle cosche rivali e assassinato l’anno seguente nel carcere di Poggioreale, a Napoli, su ordine di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata. I fratelli De Stefano capeggiavano la fazione rivale. Una guerra di mafia che aveva lasciato sul terreno già una decina di morti ammazzati. Appalti, droga, contrabbando: un mare di affare sporchi che bisognava a tutti i costi controllare. Ecco spiegata la faida.
12 dicembre 1975
Il 12 dicembre del 1975 Sebastiano, già sorvegliato speciale, aveva trascorso la mattinata all’ospedale di Scilla per sottoporsi a una serie di accertamenti clinici. Sua moglie, Domenica Pangallo, appena ventenne, insieme alla loro figlioletta, lo aveva raggiunto per riportarlo a casa. A Sebastiano era stata ritirata la patente ma, in verità, per lui questo non era stato un problema. Continuava tranquillamente a guidare la sua A112. Non quel giorno però. Ed è un particolare non da poco.
La sera del 12 dicembre 1975 Sebastiano, Domenica e Pinuccia si rimettono in macchina per tornare a San Giovanni. Al posto di guida però stavolta c’è Domenica. Sebastiano gli siede accanto e la piccola è seduta sul sedile posteriore, dove, pochi minuti dopo la partenza, si addormenta.
L’ospedale di Scilla dista poco più di una ventina di chilometri da San Giovanni Sambatello. La A112 della famiglia Utano arriva all’ingresso della frazione di Reggio poco prima delle undici di sera, ma è costretta a fermarsi da un’altra macchina, posizionata di traverso al centro della strada. I killer aprono il fuoco. Sono in due, forse addirittura tre, e imbracciano fucili a pallettoni e forse una pistola. È una pioggia di piombo, che i killer indirizzano soprattutto verso il posto di guida, convinti che vi si trovi Sebastiano, evidentemente vero destinatario dell’agguato in perfetto stile mafioso. Ma a quel posto c’è Domenica, che viene colpita alla testa e ad altre parti del corpo ma, nonostante questo, riesce a proseguire la sua corsa, superando l’auto di traverso e raggiungendo la casa di alcuni conoscenti, che trasportano tutta la famiglia in ospedale. Pinuccia, sul sedile posteriore, è in una pozza di sangue, colpita alla testa nel sonno da due proiettili. In ospedale arriverà già cadavere. Domenica, al sesto mese della sua seconda gravidanza, è ferita gravemente. L’unico uscito indenne dall’agguato è proprio Sebastiano. L’uomo scappa e fa perdere le sue tracce per qualche ora. Si farà rivedere il giorno successivo, ma negherà di aver visto in faccia i killer, così come negherà i suoi rapporti con don Mico Tripodo e la ’ndrangheta, senza dire una parola su quale potrebbe essere il movente dell’agguato che gli ha ucciso la figlia di appena tre anni e per il quale sua moglie lotta tra la vita e la morte. Sparisce anche l’auto crivellata di colpi, che verrà poi ritrovata dopo qualche giorno.
I funerali della piccola Pinuccia si svolsero nella Chiesa di San Giovanni Sambatello qualche giorno dopo l’agguato.
Una folla commossa ha accompagnato sino al cimitero la piccola Giuseppina, vittima innocente di una spirale di sangue e di vendetta”
Qualche anno dopo, Sebastiano Utano torna sui giornali, arrestato dai Carabinieri di Melito Porto Salvo perché responsabile di aver lasciato la località dove era stato ristretto al soggiorno obbligato per tornare in Calabria.
Vicenda giudiziaria
Gli assassini della piccola non sono stati mai identificati.
Memoria viva
Il suo nome continua a essere ripetuto in Calabria e altrove, assieme a quello dei tanti, troppi bambini rimasti uccisi dalla violenza mafiosa. Vittime innocenti di una cultura criminale che non ha rispetto di niente e di nessuno e che non conosce alcun codice d’onore.