14 ottobre 1974
Buguggiate (VA)

Emanuele Riboli

Emanuele era un ragazzo di 17 anni che amava le moto e andava a scuola in bicicletta. Sequestrato una sera a due passi da casa, senza farvi più ritorno nonostante il pagamento del riscatto.

Emanuele Riboli nasce il 3 novembre del 1957 a Varese. È il secondo di cinque fratelli: Donatella è la più grande, poi c’è Paolo con cui ha solo un anno di differenza, poi Lorena e poi Cristina, la piccolina di casa. Sua mamma Bianca è una donna grintosa e amorevole, attenta alla crescita dei suoi figli; papà Luigi invece lavora molto, non vuol far mancare niente alla sua famiglia ma, come può, cerca sempre di trascorrere più tempo possibile con loro. Prima lavorava come operaio nell’industria “Macchi” di Varese poi, grazie all’esperienza maturata, ha deciso di diventare un imprenditore e aprire, con suo fratello, una piccola azienda che costruisce cabine per autocarri, e che, da allora gestisce. Gli affari vanno bene, i fratelli Riboli sono bravi, tanto che riescono ad aprire un’altra piccola azienda dello stesso genere a Pescara, dove si recano almeno una volta al mese per controllare che vada tutto bene.
La famiglia Riboli è una bella famiglia numerosa e chiassosa, dove non mancano mai l’allegria e l’amore; ogni tanto c’è qualche litigio tra fratelli, ma si risolve poco dopo con una grande risata o con un bell’abbraccio. Vivono a Buguggiate, paesino sito a pochi chilometri da Varese; abitano alla periferia del paese, in una villetta che si trova vicino allo stabilimento del papà.
Emanuele è un ragazzo moro e robusto, timido e riservato, sportivo, con la passione delle moto e, in particolare, del motocross. Di giorno lavora come operaio nella carrozzeria del papà e la sera va a scuola, frequentando i corsi serali all’istituto tecnico industriale di Varese. È felice perché ha da poco ricevuto la moto Ktm 125, che è la moto da fuoristrada più ambita e di gran moda tra gli adolescenti. Di ritorno da lavoro o nel fine settimana ama fare uscite in moto con i suoi amici e fa anche gare di motocross in cui è molto bravo; la moto lo fa sentire libero ed Emanuele ama quella sensazione. 
Siamo all’estate del 1974 e la famiglia Riboli al completo va in vacanza in Valtellina, qui incontrano un pastore tedesco abbandonato di cui tutti si innamorano e così decidono di adottarlo e portarlo con loro a casa. Lo chiamano Ben ed Emanuele è al settimo cielo, si prende cura di lui, giocano insieme e lo porta sempre a fare lunghe passeggiate.
La vita di Emanuele e della sua famiglia sembra così trascorrere serenamente e niente può far presagire quel che accadrà il 14 ottobre dello stesso anno.

Il 14 ottobre del 1974

La sera del 14 ottobre, infatti, Emanuele va regolarmente a scuola a Varese, come tutti i giorni. Esce verso le 22 con l’amico e compagno di banco Giulio; insieme salgono sull’autobus che in mezz’ora li riporta a Buguggiate. Durante il tragitto scherzano e ridono delle piccole cose buffe successe in classe, progettano di uscire a fare un giro in moto prima possibile e tra una chiacchiera e l’altra sono già arrivati in paese. Scendono, come al solito in via XXV Aprile, Emanuele prende la sua bicicletta parcheggiata sempre al solito posto, poi i due amici si salutano e si danno appuntamento all’indomani. Emanuele sale in sella e si dirige verso casa. Il percorso è di poco più di un chilometro e mezzo, la strada è buia e deserta ma lui la conosce a memoria, potrebbe farla anche a occhi chiusi. Eppure Emanuele a casa non ci arriverà mai, da quel momento più nessuno l’ha visto.
Dopo le 23, i genitori di Emanuele, allarmati nel non vederlo rincasare come d’abitudine iniziano le ricerche. Emanuele era sempre puntuale, la puntualità a casa Riboli è un valore, e quel ritardo li insospettisce. Prima escono in strada, danno un’occhiata per vedere se magari si è fermato fuori a giocare con Ben, ma Emanuele non c’è. Così decidono di telefonare a casa di Giuliano per vedere se si è fermato lì da lui, ma Giulio racconta che si era avviato subito a casa, come al solito. A quel punto, preoccupati, Luigi e Bianca informano i Carabinieri e la Polizia. Iniziano così le ricerche anche se in ritardo perché all’inizio gli inquirenti non danno molto peso a quella chiamata. La sua bicicletta viene trovata la mattina seguente a un chilometro dalla villa: è nascosta in un cespuglio e agganciata al manubrio c’è la borsa sportiva di tela con i libri di Emanuele. Appare sin da subito chiaro che non si è allontanato spontaneamente: è legatissimo alla sua famiglia, è felice, ha sogni e progetti da realizzare con i suoi amici e nell’azienda assieme al papà, non c’è nessun motivo per scappare. Si fa così strada tra gli inquirenti l’ipotesi di un rapimento. 

La richiesta di riscatto

E quel presentimento, purtroppo si dimostrerà vero quando, qualche giorno dopo, i rapitori si faranno vivi chiedendo un riscatto: un miliardo di lire per rivedere Emanuele vivo. Quella è una cifra iperbolica, pazzesca, una somma che Luigi Riboli non è in grado di procurarsi. Dopo una lettera firmata da Emanuele, in cui lui dichiara di stare bene e chiede di rispettare le disposizioni dei sequestratori e di pagare il riscatto e varie telefonate tra la famiglia e i sequestratori, questi riducono la cifra a 800 milioni e comunicano che rivedranno Emanuele solo dopo il pagamento dell’ultimo centesimo. I genitori di Emanuele vendono proprietà, ipotecano la casa e l’azienda, chiedono prestiti, cercano di racimolare quanti più soldi possibili ma la somma raggiunta in totale è di poco più di 200 milioni. Li consegnano ai rapitori in più tranche, una prima volta andando fino al confine tra il Lazio e la Toscana; seguono sempre le loro indicazioni, ma di Emanuele nessuna traccia, solo la parola che quando avranno pagato tutta la cifra lo rivedranno. L’ultimo contatto con i rapitori avviene il 13 dicembre dello stesso anno, a due mesi dal rapimento. Da quel momento il silenzio, che lascia mamma Bianca, papà Luigi e il fratello e le sorelle di Emanuele nell’angoscia più pura. Mille gli interrogativi che li logorano in quell’attesa. Si susseguono appelli e suppliche per la liberazione di Emanuele, ma dei rapinatori nessuna traccia, nessun altro contatto, e quel silenzio alimenta paure inconfessabili e terribili timori. Da quel 14 ottobre non hanno più sentito la voce del loro amato figlio e col passare dei giorni cresce l’angoscia di chi è costretto ad aspettare impotente.
Emanuele aveva solo 17 anni.

Arrivò una lettera due giorni dopo il sequestro. Era di Emanuele, diceva che dovevamo pagare, che stava bene. Ma avevamo già ricevuto una telefonata che ci aveva tolto ogni dubbio. Polizia e Carabinieri sapevano delle trattative perché i sequestri allora si pagavano, non c’era ancora il blocco dei beni. I riscatti allora si pagavano. Errore gravissimo. In casa eravamo uniti in apparenza, divisi sentimentalmente. Nessuno parlava con gli altri di quanto ci era accaduto. Per non suggestionarci a vicenda, credo, per proteggere i fratelli più piccoli. Cristina aveva solo cinque anni. Papà a volte si sfogava, facendo il duro. Poi, se rispondeva a qualche telefonata dei sequestratori, li pregava in ginocchio di lasciare libero Emanuele. La mamma taceva, ha sempre tenuto lontani curiosi e cronisti. Non gli andava che di Emanuele si parlasse sui giornali come del “figlio di” senza badare alla personalità di un ragazzo timido finito in una vicenda più grande di lui. E per lei Emanuele è sempre lì, nella sua stanzetta. Ha ancora tutti i suoi vestiti, come se dovesse tornare da un momento all’altro.
Donatella - sorella di Emanuele

Vicenda giudiziaria

Nessuno sapeva, all’epoca, che la ’ndrangheta aveva attaccato come una metastasi i tessuti ricchi della società nel profondo Nord. Avevano cominciato con il contrabbando di sigarette, rapine, estorsioni, usura, traffico di stupefacenti e poi si erano dedicati ai rapimenti: portare via un uomo, in molti casi un figlio di un noto imprenditore, e chiedere un riscatto per la sua liberazione. 
La soluzione al caso di Emanuele arriva soltanto nel 1990 da una scheggia impazzita della stessa cosca che aveva partecipato all’organizzazione di quel rapimento: Antonio Zagari che si pente e decide di collaborare con la giustizia. 

Quella morte mi colpì, nonostante io all’epoca non mi facessi tanti scrupoli nel commettere altri reati, perché conoscevo il ragazzo, era un ragazzo giovane, anch’io ero giovane, avevo solo 20 anni, e quindi, pur essendo inserito in un particolare ambiente, quel fatto non mi era piaciuto. Quindi, pur continuando a commettere delitti e reati di vario genere cominciai a nutrire una certa avversione verso quel tipo di reato.
Antonio Zagari - collaboratore di giustizia

Fu proprio Antonio Zagari, infatti, a sventare l’ultimo rapimento in programma nella provincia di Varese nel gennaio del 1991: accompagnò lui quattro rapitori della ’ndrangheta davanti alla casa di Antonella Dellea a Germignaga, nel Luinese, ma prima si era accordato con i Carabinieri che in quella notte riuscirono a fermare il commando.
Il pentito Antonio Zagari all'epoca del sequestro di Emanuele era un vicino di casa dei Riboli e suo fratello, Enzo Zagari, oltre che compagno di gare motociclistiche di Emanuele, era anche un dipendente dell’azienda di papà Luigi. Antonio racconterà che il sequestro era stato deciso da suo padre, Giacomo Zagari, un capoclan calabrese della ‘ndrangheta. Racconterà che Emanuele fu ucciso, la sua morte provocata con un avvelenamento, e il suo corpo dato in pasto ai maiali per farlo sparire. La morte fu decisa perché i Carabinieri convinsero il padre di Emanuele a tendere un tranello ai rapitori facendogli mettere nella valigia solo uno strato di soldi e poi carta straccia e una ricetrasmittente; vogliono seguirli, individuare il covo e salvare Emanuele. Ma un’auto civetta dei Carabinieri, al momento della consegna, urta con una ruota la valigia e la fa cadere in una scarpata. I rapitori la vanno a recuperare, la trovano aperta e così scoprono subito l’inganno. Emanuele intanto è stato per giorni chiuso nel bagagliaio di un’auto perché la banda non ha trovato un covo. Il pentito racconta che, scoperto l’inganno, il capoclan decide subito di farlo avvelenare e sparire.
Gli esecutori materiali sono stati condannati all'ergastolo in primo grado ma poi prosciolti per intervenuta prescrizione. Al processo d’appello che si terrà a Milano nell’ottobre del 1999 il Sostituto Procuratore Generale Francesco Maisto chiederà scusa alla famiglia Riboli.
Il capoclan, Giacomo Zagari, è detenuto per altri reati.

Telefonai e dissi: io oggi pomeriggio chiederò l’assoluzione per i rapitori di vostro figlio. Volevo chiedervi perdono di questo da parte di tanti che avrebbero dovuto farlo e non l’hanno fatto».
E durante la requisitoria in Corte d’Appello quel pomeriggio disse: «la Giustizia italiana che qui umilmente rappresento deve chiedere scusa ai genitori di Emanuele perché se i criminali che lo sequestrarono saranno assolti e liberati non è colpa del destino. Un’incredibile serie di errori, di superficialità, di omissioni da parte dello Stato ha permesso che per anni i rapitori di Emanuele Riboli restassero sconosciuti e poi ha fatto in modo che l’accusa contro di loro possa essere cancellata per prescrizione.
Francesco Maisto - Sostituto Procuratore Generale

Memoria viva

Il Presidio di Libera Comuni Medicei e quello di Moncalieri in Piemonte hanno scelto di intitolarsi alla memoria di Emanuele, vittima innocente della violenza mafiosa. 
A Manerba sul Garda (BS), la "Casa della legalità" è stata intitolata a Emanuele. E' un polo formativo sui temi della legalità, della cittadinanza attiva e del bene comune, disponibile in particolare per visite e laboratori scolastici sia di scuole del territorio, sia di scuole provenienti da altre province/regioni. È gestita dal progetto Legami Leali.

Non smetterò mai di fare le mie ricerche. Mai! Lo cercherò e, vivo o morto, lo troverò senz’altro.
Mi piacerebbe almeno di poter fare una sepoltura adeguata e almeno di poter portare un mazzetto di fiori sulla sua tomba.
Luigi - papà di Emanuele