9 giugno 1989
Vittoria (RG)

Salvatore Incardona

Ci sono persone che hanno ben chiara la differenza tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. E Salvatore sapeva bene che pagare una "tassa" ai clan mafiosi non fosse una cosa giusta e non accettava di farlo. Per di più cercava di convincere anche gli altri imprenditori a fare lo stesso.

Salvatore Incardona nasce a Vittoria, in provincia di Ragusa.
È un uomo semplice, un gran lavoratore, con un fortissimo senso del dovere. Fa il grossista al mercato ortofrutticolo del paese ed è dirigente della cooperativa Agriduemila. E’ sposato con Rosaria e hanno quattro figli: Carmelo, Gianni, Valeria ed Eliana. Sono una famiglia normale, serena e armoniosa. Salvatore ha fatto tanti sacrifici per non far mancare loro nulla; vuole che i suoi figli possano studiare e provare a realizzarsi secondo i loro rispettivi desideri e aspirazioni.
Siamo nella prima metà degli anni Ottanta quando, come tutti i colleghi del mercato ortofrutticolo, viene chiamato dal Giudice istruttore Michele Duchi, un magistrato integerrimo, che sta indagando sulla mafia e sulle estorsioni in provincia di Ragusa.
Il giudice Duchi, assieme ad altri colleghi, sta provando con il suo lavoro a contrastare la mafia, per liberare la città da questa opprimente cappa. Il clima non è sereno, ogni indagine viene ostacolata da un muro di omertà. Nessuno, infatti, parla. Nessuno denuncia. Nessuno collabora.
Eppure, in questo contesto, Salvatore rompe gli schemi. Non appena convocato dal giudice non ha paura di raccontare quello che sa con precisione. “L’estorsione, ormai, è diventata una prassi consolidata”, spiega subito Salvatore al Giudice.

A chiedere il pizzo, all’inizio degli anni Ottanta erano le famiglie Cirasa e Gallo. Non c’era un tariffario ben preciso, ma una sorta di sovrapprezzo sull’acquisto delle cassette per imballare le zucchine, le melanzane, i pomodori. Il clan aveva messo in piedi un meccanismo che con il tempo sarebbe diventato perfetto. Tutte le aziende che costruivano casse dovevano far confluire il loro prodotto in un unico consorzio e i commissionari dovevano rifornirsi in quel consorzio, garantendo così l’acquisto delle cassette. Salvatore però a questa imposizione non ci sta. Lui le acquista da un piccolo artigiano di Vittoria, oppure, altre volte utilizza casse già usate che riacquista da rivenditori ambulanti o da piccoli commercianti della zona. Tutti i suoi colleghi, invece, accettano in silenzio questa situazione, che permette al clan di riscuotere il pizzo mascherandolo come un servizio. Nessuno ha mai pensato di denunciare, per paura di subire ritorsioni o persino di essere ucciso.
Salvatore non è un eroe, anche lui ha paura che gli possa succedere qualcosa ma, allo stesso tempo, è un uomo giusto e onesto ed è consapevole che questa imposizione non è giusta e va denunciata e combattuta. Ogni volta che capita di affrontare l’argomento con amici, conoscenti o colleghi ripete sempre, senza nascondersi, che la strada da perseguire è quella di non pagare e denunciare il fenomeno per porre fine, una volta per tutte, alle richieste estorsive.
Salvatore riferisce tutto questo al giudice Duchi, racconta ciò che sa circa l’organigramma della mafia vittoriese, di cui tutti in paese sanno, ma nessuno parla.

Una battaglia solitaria

Con il passare degli anni i vertici della mafia vittoriesi cambiano: il boss Cirasa viene ucciso dal clan dei Gallo, che poi, a sua volta, sarà il bersaglio delle famiglie Carbonaro e Dominante. Questi ultimi daranno vita a un sodalizio criminoso tra i più feroci e sanguinari della mafia siciliana, che si legherà alla Stidda. In paese diffondono il terrore. Vogliono controllare ogni affare e perciò prendono di mira il cuore economico di Vittoria: il mercato ortofrutticolo.
Siamo nel 1989 e Salvatore e tutti i suoi colleghi si trovano ancora una volta sotto pressione. Eppure Salvatore non ha cambiato idea sulla decisione di non cedere, di non pagare il pizzo e di voler portare avanti questa battaglia di giustizia. Sa bene che la situazione è cambiata rispetto al passato, che non può certo fare tutto da solo, così nelle riunioni con gli altri commercianti cerca di convincerli a non pagare più il pizzo, a costituire un’associazione antiracket e a firmare tutti insieme una denuncia collettiva contro i boss mafiosi. Ma nessuno accoglierà il suo accorato invito.

Salvatore vuole difendere il proprio lavoro, non vuole piegarsi, non vuole cedere una parte dei suoi incassi, guadagnati con dedizione e fatica. I suoi colleghi invece si sono piegati, hanno accettato passivamente l’estorsione da parte del clan Carbonaro-Dominante. L’hanno considerata come se fosse una tassa, una spesa da mettere nel conto. Alcuni di loro gli dicono di lasciar perdere, di accettare e basta questo pagamento, gli dicono anche di aumentare i prezzi così questa “tassa” sarebbe ricaduta sui clienti e non su di lui. Ma Salvatore non ci sta. Alza la voce ripetendo a tutti che è necessario denunciare i mafiosi che chiedono il pizzo e, allo stesso tempo, accusa i colleghi che pagano di essere complici morali dei clan. Viene lasciato solo.
Di questo rifiuto e scalpore provocato da Salvatore vengono subito informati i fratelli Carbonaro, che provano a intimidirlo e mandano a casa di Salvatore uno dei rampolli della famiglia, Carmelo Dominante. Ma neanche questa strategia funziona. Infatti, Salvatore, appena lo vede all’interno del suo box, lo butta fuori dicendogli che se fosse tornato lo avrebbe denunciato.
I boss non possono accettare un tale affronto, non possono perdonare un simile gesto, non possono consentire a Salvatore di ribellarsi e smuovere le coscienze, così, la loro reazione violenta non si farà attendere troppo.

Il 9 giugno del 1989

Sono le 5:45 del mattino del 9 giugno del 1989.
Salvatore, come tutte le mattine, raggiunge la sua automobile parcheggiata in garage per recarsi a lavoro. Non sa e non può immaginare che quella non è una mattina come tutte le altre.
Dei killer lo stanno aspettando proprio fuori dal suo garage. Salvatore apre lo sportello dell’autovettura, sale, mette in moto mentre è assorto nei suoi pensieri, accompagnati dalla quiete del mattino. All’improvviso quella normalità viene devastata da diversi colpi d’arma da fuoco. Salvatore viene investito da una pioggia di fuoco di Kalashnikov che lo lascia senza vita. Per lui non ci sarà scampo. Muore sul colpo, lasciando nella più completa disperazione la sua adorata moglie e i suoi 4 figli, di 25, 23, 11 e 8 anni, Eliana la piccola di casa. Aveva appena compiuto 50 anni.
All’arrivo delle forze dell’ordine lo troveranno riverso sul suo sedile. Solo. Vengono subito interrogati i vicini, ma tutti dichiarano di non aver visto né sentito niente.

Vicenda giudiziaria

Le indagini dei Carabinieri e degli inquirenti da subito si indirizzano sul movente estorsivo, ma in paese la sua memoria viene sporcata da chi mette in giro sospetti sul movente. Ci si inizia a chiedere se era davvero un uomo onesto e se non avesse, invece, qualcosa da nascondere. Così Salvatore viene lasciato solo, anche dopo la morte. La sua famiglia isolata, non smette però di chiedere verità e giustizia e di difendere con orgoglio la sua memoria.
La vera svolta avviene nel 1992, quando Silvio Carbonaro, appartenente dell’omonimo clan, con riferimento all’uccisione di Salvatore dell’omicidio racconta che: “fu ucciso perché non voleva cedere alle nostre richieste estorsive. Ogni volta che gli telefonava qualcuno per chiedergli i soldi dell’estorsione diceva sempre che non avrebbe pagato. Allora Carmelo Dominante disse che “per aggiustare il mercato si doveva uccidere chi faceva più casino e tentava di convincere gli altri posteggiatori del mercato a non pagare”. Si mettono così definitivamente a tacere tutte le voci e inizia un processo che si concluderà con numerose condanne.
I giudici, nelle motivazioni della sentenza di condanna dei mandanti e degli esecutori materiali, metteranno la parola fine anche ai diversi tentativi di infangarne la memoria.
Al di fuori di ogni retorica, la figura di Salvatore Incardona è stata tra i più fulgidi esempi di resistenza all’ingiustizia e di opposizione alla sopraffazione”.
Nella sentenza viene cristallizzato che Salvatore è stato ucciso su ordine delle cosche locali. Il suo omicidio serviva per dimostrare agli altri imprenditori e ai coltivatori della provincia che non ci si doveva opporre al pagamento del pizzo.

Memoria viva

Nove anni dopo la sua barbara uccisione, il Comune di Vittoria, deciderà di intitolare alla sua memoria una strada del paese.
Salvatore ha avuto il coraggio di alzare la testa con convinzione, proseguendo per la sua strada di denuncia e di ribellione ai clan, nonostante sia stato lasciato solo. Ha rotto il muro dell’omertà e la sua vita è tuttora di esempio per quanti sono soggetti a intimidazioni e ritorsioni a opera della mafia.

Se ci opponiamo tutti non potranno farci niente.
Salvatore Incardona