15 novembre 1986
Cittanova (RC)

Antonio Bertuccio

Era attaccato al suo mestiere Antonio e non vi rinunciava se non in casi davvero eccezionali. Per il resto, ogni mattina si alzava praticamente all'alba per raggiungere il cantiere.

Tra gli appassionati di caccia, il tordo è considerato uno degli animali selvatici più ambiti. È un animale di piccole dimensioni, le cui carni sono considerate però una prelibatezza. Soprattutto, le tecniche di caccia per questo uccello sono particolarmente impegnative e, perciò, maggiormente stimolanti per i cacciatori: pazienza, lunghi appostamenti, una mira infallibile sono elementi essenziali per chi si cimenta nella caccia al tordo. Una pratica, insomma, per cacciatori esperti.

Antonio Bertuccio, classe 1945, lo era. La caccia era forse la sua unica passione al di fuori del lavoro. Di mestiere faceva il capocantiere edile ed era particolarmente apprezzato per le sue capacità. Mastru Nino - così lo chiamavano tutti - era una garanzia di affidabilità e di correttezza. A Cittanova - quasi 10 mila abitanti, alle pendici dell’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria - tutti lo conoscevano. Aveva lavorato alla costruzione di molte case private e anche di parecchie opere pubbliche. Ma in generale, a qualsiasi tipo di lavoro si dedicasse, l’attenzione e la cura che ci metteva erano sempre le stesse. Valeva anche per le case delle sue figlie, alla cui costruzione si dedicava, con le sue mani, nei momenti di libertà. Era attaccato al suo mestiere Antonio e non vi rinunciava se non in casi davvero eccezionali. Per il resto, ogni mattina si alzava praticamente all’alba per raggiungere il cantiere.

A Cittanova Mastru Nino aveva messo su anche la sua bella famiglia. Sua moglie Teresa gli aveva regalato quattro splendidi figli: Michele, Carmen, Emanuela e Stefania. Era un uomo forte e determinato, che difficilmente abbassava la testa. Eppure, in casa, sapeva essere anche un padre amorevole e tenero. Dai racconti di Carmen, viene fuori la figura di un papà attento e premuroso, capace di passare quel poco tempo libero che aveva a giocare con le sue amate bambine. Proteggere e sostenere la sua famiglia era un imperativo morale per quest’uomo. Avrebbe continuato a farlo per il resto dei suoi giorni se ne avesse avuto la possibilità. Una possibilità che gli fu tolta alle prime ore del mattino del 15 novembre 1986.

Il 15 novembre del 1986

Il sabato e la domenica erano gli unici giorni un po’ più liberi dagli impegni lavorativi e Antonio amava dedicarsi, nei fine settimana, alla sua passione per la caccia. Il 15 novembre dell’86 era appunto un sabato. Era ancora buio quella mattina, quando, insieme ad alcuni amici del paese e a un piccolo gruppo di parenti giunti da Gioia Tauro, Antonio si mise in macchina per raggiungere contrada Rineda, una località particolarmente adatta alla caccia al tordo. Insieme, l’avevano scelta per attendere il passaggio degli uccelli. L’appostamento iniziò quando ancora la luce del giorno non era arrivata a illuminare il paesaggio. I cacciatori - il gruppo di Antonio e altri - si erano sistemati a una decina di metri di distanza l’uno dall’altro. C’era solo da aspettare. Ciò che accadde però nessuno poteva aspettarselo.

Antonio era in una posizione particolarmente defilata rispetto al resto del gruppo. Tuttavia, tutti videro arrivare due o tre uomini che, con ancora il favore del buio, circondarono Mastru Nino, chiedendogli di consegnargli il fucile. Antonio, che di certo non era abituato a subire pressioni e angherie, si rifiutò. Ne nacque una colluttazione. I colpi che si udirono dopo qualche istante furono l’esito drammatico e inatteso di quel diverbio. Antonio si accasciò al terreno, colpito in pieno alla tempia sinistra e al viso da cinque proiettili esplosi da distanza ravvicinata che non gli lasciarono scampo. Mastru Nino non tornò mai più a casa da quella battuta di caccia. Morì così, a 41 anni, lasciando una moglie di 37 anni e quattro figli. Il più grande, Michele, di anni ne aveva 17. La più piccola, Stefania, appena 3. In mezzo, Carmen, all’epoca dodicenne, ed Emanuela, 9 anni.

Per Teresa e i suoi figli, l’uccisione di Antonio fu un colpo durissimo, da tutti i punti di vista. La famiglia perse il suo punto di riferimento. La donna non riuscì mai davvero a riprendersi. Così come la bambina più piccola, a cui a lungo fu nascosta la notizia della morte violenta di suo padre. La responsabilità di portare avanti la casa e la famiglia ricadde così sulle spalle di Michele, che fortunatamente da poco aveva cominciato a lavorare, e di Carmen. La più grande delle tre figlie femmine di Antonio dovette rinunciare agli studi per prendersi cura di sua madre e delle sue sorelle. Furono anni difficilissimi, di solitudine, di dolore, di sacrifici.

Il tempo e il ricordo così vivido si suo padre hanno poi aiutato Carmen a riprendere in mano la sua vita. Anni dopo l’omicidio, si è diplomata e poi anche laureata in Giurisprudenza, diventando a sua volta mamma.

I miei figli è come se il nonno lo avessero sempre conosciuto e avuto vicino, perché gli ho sempre parlato di lui. Non passa giorno che io non lo nomini o che non lo renda presente in qualche modo.
Se papà fosse rimasto con me la mia vita sarebbe stata migliore, in tutto. Perché mi è mancato molto sul piano affettivo. Lo avrei voluto accanto il giorno del mio matrimonio o quando sono nati i miei figli. Quando lui è morto ho trovato la forza di prendere in mano la situazione soltanto pensando all’amore che lui provava per me e per i miei fratelli. E quindi ho capito che dovevo essere io a sostituirlo, ad imitarlo.
Carmen - figlia di Antonio

Vicenda giudiziaria

Quando i Carabinieri giunsero sul posto, allertati dagli altri presenti, esclusero immediatamente qualsiasi ipotesi di legami di Antonio con ambienti malavitosi. Non c’era nessuna ombra nella vita di questo carpentiere attento, onesto e attaccato al lavoro e alla famiglia. Nessuna frequentazione ambigua, nessun legame pericoloso. I testimoni dichiararono di non essere riusciti, a causa del buio e della distanza, a individuare con esattezza le fattezze degli uomini che avevano circondato Antonio. Si fece subito strada l’ipotesi che quella morte fosse l’esito drammatico del tentativo di qualche latitante di sottrarre l’arma ad Antonio per impossessarsene. Era già successo altre volte. Forse - pensò qualcuno - Antonio riconobbe i suoi assalitori, che pertanto decisero di eliminarlo. Non servirono a nulla i posti di blocco e le perquisizioni avviate nell’immediatezza del fatto. Ci furono anche alcuni fermi. Ma le indagini finirono in vicolo cieco. La morte di Antonio Bertuccio resta ancora senza verità e senza giustizia.

Memoria viva

Antonio è stato riconosciuto vittima innocente della mafia. A lui e altre otto vittime della ‘ndrangheta, il 21 maggio del 2018 è stato dedicato il Polo della legalità di Cittanova.