La dignità - quante volte lo avrà pensato - è preziosa proprio come il tempo e dunque non va sprecata, non può essere svenduta. Ed è forse per questo che amava tanto gli orologi, alla cui riparazione si impegnava con cura maniacale. Con la stessa dedizione con cui si dedicava al suo lavoro vero, quello di mugnaio. Fatica e dignità sono le lancette che girano sul quadrante di questa storia, a scandire il tempo di una vita spesa nel nome della libertà.
Rocco Gatto nacque il 28 agosto del 1926 a Gioiosa Ionica, un paese stretto tra il mare e le montagne dell’Aspromonte, nel cuore della Locride, in provincia di Reggio Calabria. Era il primo di dieci figli, nati dal matrimonio di Pasquale Gatto e Giuditta Ameduri. Suo padre non aveva studiato ma era un uomo combattivo e determinato. Qualità che Rocco dovette apprendere sin da bambino e alle quali ispirò tutta la sua esistenza. Il lavoro era una necessità in questa famiglia di gente semplice e onesta. E Rocco aveva imparato a lavorare sin da giovanissimo. Aveva dovuto lasciare la scuola quando frequentava la quarta elementare. Faceva il garzone in un mulino. Un lavoro faticoso che però lui affrontava con impegno e passione, al punto da decidere, nel 1964, di rilevare l’attività e di diventarne proprietario. E poi c’erano gli orologi. Rocco era affascinato dal meccanismo rinchiuso in quelle scatolette di metallo. Aveva imparato a ripararli e aveva deciso di aprire un laboratorio a pochi passi dalla piazza principale di Gioiosa. Quando vi si rinchiudeva, si immergeva completamente in quel mondo in cui il tempo, paradossalmente, si fermava.
L’impegno politico
Rocco conosceva il valore del lavoro come strumento di dignità. Ci credeva fortemente e aveva deciso di dedicare un pezzo della sua vita anche all’attività politica, iscrivendosi al Partito Comunista Italiano. Ma si muoveva in un contesto difficile e delicato, dove la presenza asfissiante della ‘ndrangheta limitava fortemente gli spazi di libertà. La famiglia degli Ursini teneva sotto scatto quella piccola comunità, agitando terrore e violenza come strumenti di controllo sociale. Era una ‘ndrina assai potente, con collegamenti e alleanze consolidate con altre cosche, come quella degli Aquino di Marina di Gioiosa o quella dei Cordì di Locri, e con ramificazioni ben oltre i confini della Calabria. Agli Ursini erano collegati i Belfiore, altra potente famiglia di mafia, da tempo trasferitasi a Torino e a cui si deve l’omicidio del Procuratore Bruno Caccia, assassinato nel capoluogo piemontese il 26 giugno del 1983.
Era in questo clima che Rocco era cresciuto, sentendo sempre dirompente dentro di sé quel senso della giustizia che lo portava a contrapporsi senza la minima esitazione alla logica mafiosa del sopruso e della sopraffazione. Lui del resto la viveva in prima persona quella logica, perché da tempo gli Ursini avevano messo gli occhi anche sulla sua attività. Le richieste estorsive si erano fatte, nel tempo, sempre più insistenti e opprimenti, ma lui non si era mai piegato. Erano arrivati a chiedergli anche una “mazzetta” di due milioni, una cifra enorme per l’epoca. Ma niente, lui era irremovibile: non avrebbe consentito a nessuno di calpestare così la dignità sua e del suo lavoro. La reazione della mafia a quella fermezza era stata durissima. Minacce e intimidazioni erano all’ordine del giorno. Erano arrivati a prendere di mira il suo laboratorio di orologiaio, rubandogli in una notte qualcosa come 17 chili di orologi. Poi era stata la volta della casetta di campagna e, infine, del mulino, dato completamente alla fiamme. Rocco aveva denunciato pubblicamente questi episodi, addirittura in televisione: “mi hanno distrutto il lavoro di 20 anni. Ma io lotterò sempre, lotterò fino alla morte”, aveva detto.
La RAI era arrivata a Gioiosa perché, a ben vedere, Rocco non era l’unico ad avere alzato un muro contro la ‘ndrangheta. Nel 1975 era stato eletto sindaco Francesco “Ciccio” Modafferi. Era anch’egli un uomo combattivo e determinato e si era posto a capo di una maggioranza composta da socialisti e comunisti. Da primo cittadino, si era apertamente schierato contro il potere mafioso e per questo la rappresaglia criminale si era scatenata anche contro di lui, fino al punto da intimargli le dimissioni con una telefonata raccolta da sua moglie: “a tuo marito gli diamo 24 ore per dimettersi. Se non lo fa lui, lo facciamo dimettere noi”. E Ciccio si era fatto riprendere in televisione dopo 48 ore da quell’ultimatum: “io sono al mio posto di lavoro e di lotta, nel mio impegno quotidiano politico e amministrativo”. Nel 1976 le telecamere RAI arrivano a Gioiosa per raccontare la storia di resistenza di questa piccola comunità, in cui si erano ritrovati, un po’ per caso e un po’ per scelta, dalla stessa parte della barricata questo sindaco onesto, un prete ribelle e un giovane e coraggioso ufficiale dei Carabinieri. Il prete era don Natale Bianchi, parroco della Chiesa di San Rocco. L’ufficiale era il Capitano Gennaro Niglio, arrivato in Calabria con la missione di combattere la ‘ndrangheta. Ognuno facendo fino in fondo la sua parte, erano riusciti a scuotere le coscienze di questa piccola comunità, dalla quale cominciavano a levarsi con sempre maggiore insistenza voci di dissenso e di lotta contro la mafia. Una stagione feconda di impegno antimafia.
Uno sciopero contro la mafia
Il 6 novembre del 1976 è una data cruciale in questa storia. Quel giorno i Carabinieri ingaggiano un conflitto a fuoco con dei mafiosi, nel corso del quale viene colpito a morte Vincenzo Ursini, il capobastone della locale famiglia di ‘ndrangheta. Per la cosca è un affronto insopportabile, che merita una risposta clamorosa. Così il giorno dopo - domenica 7 novembre - bande di mafiosi presidiano le strade di ingresso al paese, impedendo armi alla mano l’accesso ai numerosi commercianti e venditori ambulanti che, come ogni domenica, raggiungevano la piazza principale per il mercato settimanale. Non solo, perché intimano ai commercianti locali di tenere chiusi i loro negozi, imponendo di fatto il lutto cittadino come segno di rispetto per la morte del capomafia. Rocco assiste personalmente al giro di ricognizione dei mafiosi per verificare il rispetto dell’ordine di tenere tutto chiuso. Ne rimane talmente turbato da compiere una scelta radicale. Contatta i Carabinieri e il Sindaco e denuncia tutto, facendo nomi e cognomi. Partono le indagini che portano all’individuazione dei sette picciotti protagonisti di quella mattinata assurda. L’11 gennaio del ’77 Rocco viene convocato in caserma e firma un verbale di una quindicina di righe in cui conferma tutto e ribadisce i nomi dei responsabili. Il 24 gennaio il Consiglio comunale, spinto da Modafferi, delibera, anche con i voti dell’opposizione democristiana, la costituzione di parte civile del Comune nel processo contro i 7 mafiosi: è la prima volta nella storia repubblicana. Il 27 gennaio inizia il processo che si chiude con la condanna dei picciotti. È probabilmente la goccia che fa traboccare il vaso.
Il 12 marzo del 1977
Il 12 marzo Rocco è alla guida del suo furgone. Sta percorrendo, come sempre, la strada provinciale che collega Gioiosa a Roccella Jonica per il giro delle contrade. Arrivato in contrada Armo, all’altezza di un piccolo ponte, viene fermato dai killer, che gli scaricano addosso tre colpi di lupara. Rocco, 51 anni ancora da compiere, viene massacrato così, senza avere scampo.
La notizia dell’uccisione scatena la reazione civile e politica. Vengono convocate le piazze, in cui si riversano cittadini, lavoratori, sindacalisti e politici. Il Sindaco è in prima linea, accanto a Pasquale, il padre di Rocco, che raccoglie l’eredità del figlio.
Vicenda giudiziaria
Pasquale rilascia interviste, accusa la ‘ndrangheta, fa nomi e cognomi. Chiede da subito giustizia per quella morte. Le indagini partono immediatamente e si concentrano su Mario Simonetta e Luigi Ursini. Entrambi vengono accusati di omicidio e di estorsione aggravata. Il 13 aprile del 1979 inizia il processo per l’omicidio e Pasquale non si perde nemmeno un’udienza. Ma la sua speranza di ottenere giustizia è destinata a scontrarsi con la realtà. I due pastori che avevano ritrovato il corpo e lanciato l’allarme dicono di avere udito solo i colpi, ma di non aver visto nulla. Le prove vengono giudicate insufficienti e così, il 22 luglio, la Corte d’Assise di Locri assolve i due imputati. Nel maggio del 1986 anche in appello i due vengono assolti dall’accusa di omicidio, sebbene condannati per estorsione aggravata a 7 anni Simonetta e a 10 anni Ursini. La sentenza viene confermata anche dalla Cassazione nell’aprile del 1988.
Mio fratello era un genio. Anche se aveva fatto fino alla quarta elementare perché allora le possibilità per comprare una matita non c’erano. Lui aveva la passione degli orologi e riusciva a ripararli perfettamente. Ma ha iniziato prestissimo a fare il lavoro di mio padre, per aiutare tutti noi, eravamo dieci figli, sette maschi e tre femmine. Lavorava giorno e notte ma non aveva mai una soldo in tasca perché era troppo generoso con tutti. Mio fratello aveva un cuore grande e se voleva poteva anche non far pagare le persone, ma le imposizioni no, non le accettava da nessuno.
Memoria viva
La memoria di Rocco non si è mai spenta a Gioiosa. E, se è accaduto, è anzitutto grazie alla sua famiglia, a Francesco in particolare, che ha raccontato la storia di suo fratello in tanti luoghi, ovunque in Italia, accompagnato dai volontari di Libera. È una memoria viva, che ha ispirato il lavoro di regista di un suo pronipote, Alberto Gatto, autore di due documentari che ne raccontano la storia. Una storia della quale si è occupata anche Rai Storia, che ha dedicato a Rocco una puntata della serie di documentari “Diario Civile” dal titolo “Senza fare un passo indietro. Storia di Rocco Gatto”, andata in onda il 15 marzo del 2017.
LaC Dossier ripercorre la vicenda umana e sociale di Rocco Gatto, con interviste a testimoni d'eccezione, una puntata andata in onda a ottobre del 2017.
A lui è stato dedicato il Presidio scolastico di Libera di Alta Valle del Tevere, in provincia di Perugia, che continua a trarre ispirazione dalla testimonianza di forza e coraggio di quest’uomo perbene e onesto.
A Gioiosa, a ricordare Rocco, un murales realizzato poco dopo la sua uccisione e ispirato al Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Al centro, su uno striscione, la scritta “Lotta, unità e partecipazione popolare per la crescita civile e democratica di Gioiosa Jonica e del Meridione”.
Sul petto di papà Pasquale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini ha appuntato una Medaglia d’oro al valor civile: “Pur consapevole dei pericoli cui andava incontro - si legge nella motivazione - non esitava a collaborare ai fini di giustizia nella lotta contro la mafia e a reagire con audacia alle intimidazioni di cui era fatto oggetto. Cadeva sotto i colpi d'arma da fuoco in un vile e proditorio agguato tesogli da due appartenenti alla suddetta organizzazione. Mirabile esempio di spirito civico e di non comune coraggio”.