22 marzo 1976
Motticella di Bruzzano Zeffirio (RC)

Caterina Liberti

Ci sono storie senza tempo, che raccontano di coraggio e senso di giustizia e ci fanno capire quanto alcune vite e scelte possano trasformare la storia dei luoghi. Come quella di Caterina, una donna che inconsapevolmente ci consegna una storia di riscatto e onestà in terra di Calabria.

Motticella è una frazione del piccolo comune di Bruzzano Zeffirio, nella Locride. Un piccolo borgo che sorge ai piedi del monte Scapparrone, abitato oggi da poco più di un centinaio di persone. Un paese che ha vissuto la triste esperienza di spopolamento, di tanti altri piccoli centri urbani della Calabria. Diventato famoso agli onori della cronaca a causa di una violenta faida che tra il 1985 e il 1990 ha fatto più di 50 morti. Soltanto nel 1997 l’operazione Tuareg riuscì a fare luce su quegli anni.

Motticella è anche e soprattutto la casa di anime belle e umili, che vivono grazie all’agricoltura e alla pastorizia. Come Caterina Liberti, che a Motticella era nata durante la Seconda Guerra Mondiale, e lì ha vissuto e trovato la forza e il coraggio di affrontare le malelingue, che tanto dovevano avere da raccontare su di lei. Era cresciuta sola con sua madre, Maria Antonia, e l’aveva sempre aiutata a lavorare i campi e a prendersi cura delle loro capre. Una donna che aveva imparato tutto ciò che sapeva dalla vita, ricca di quella cultura che non si impara sui libri, ma da ciò che ti accade, da quelle esperienze che avvolgono di umanità e di coraggio chi le vive.

Era molto giovane, soltanto 22 anni, quando decise di portare a termine da sola una gravidanza. Aveva osato sfidare le menti dei benpensanti, lei donna sola, non sposata aveva dato alla luce una bambina, diventata il suo bene più prezioso.

Non si risparmiava mai Caterina, si sentiva responsabile della vita della madre e di sua figlia, per la quale sognava un futuro diverso dal suo e alla quale aveva permesso di studiare. Ogni giorno si svegliava prima che il sole sorgesse, per recarsi a piedi a curare i suoi campi e le poche capre che possedeva e che le permettevano di sfamare la sua famiglia, il centro del suo mondo.

Così quando il 2 febbraio del 1976 qualcuno aveva rubato le sue quattro capre, Caterina aveva deciso di affrontare coloro che riteneva responsabili. La paura di non sapere come dare da mangiare a sua figlia e a sua madre doveva essere più grande di quella di affrontare i responsabili del furto, sicuramente legati alla ‘ndrangheta agro – pastorale di quei luoghi.

Non aveva ottenuto indietro le sue capre, ma non si era arresa e da sola aveva deciso di sporgere una regolare denuncia. Un fatto insolito in quegli anni e in quel territorio, ma lei era una donna forte e conosceva benissimo la differenza tra ciò che era giusto e ciò che non lo era. Rivolgendosi alle Forze dell’Ordine aveva rotto la legge dell’omertà, una legge non scritta ma alla quale quasi tutti si piegavano. E lei, donna e per lo più sola, aveva deciso di infrangere, fornendo quasi sicuramente i nomi e i cognomi dei protagonisti al maresciallo che aveva accolto la sua denuncia.

Lo sgarro non poteva rimanere impunito.

Il 19 marzo del 1976

A Motticella in quei giorni fervevano i preparativi per la Festa della Vergine Annunziata, la cui statua ogni anno il 24 marzo veniva portata in processione per gli stretti vicoli del borgo fino alla chiesetta del cimitero e poi deposta sull’altare della Chiesa di San Salvatore, l’unica chiesa del paese.
Le donne intonavano le lodi a Maria e chiedevano le grazie per i loro cari. Chissà Caterina cosa chiedeva nelle sue preghiere, sicuramente ottenere giustizia per ciò che aveva subito. Perché sua figlia non poteva correre il rischio di non ottenere la licenza media. Aveva compiuto 14 anni, stava diventando una donna, una donna che avrebbe avuto un futuro diverso da quello delle altre donne della famiglia.

In quei giorni le famiglie di Motticella avrebbero apparecchiato le tavole con il piatto principale: i maccheroni con la carne di capra, la migliore veniva “sacrificata” per onorare la Madonna. Sulla tavola della famiglia Liberti però non ci sarebbe stata quest’anno.

Anche quella sera Caterina e la madre stavano rientrando dopo una giornata trascorsa nei campi, era già buio. Le due donne erano appena entrate in paese, intorno alle 19, quando qualcuno l’ha chiamata per nome e da dietro una siepe ha esploso due colpi, che avevano squarciato il silenzio di Motticella e ferito Caterina al braccio e al torace.
Solo le urla disperate della madre avevano richiamato alcune persone che la aiutarono a soccorrere sua figlia, a terra in una pozza di sangue. Caterina fu trasportata all’Ospedale civile di Melito Porto Salvo, dove ha lottato per due giorni tra la vita e la morte. I medici tentarono di tutto per salvare la vita a questa giovane donna di soli 36 anni, amputandole anche il braccio colpito da una pioggia di piombo.
Poco prima delle 7 del mattino del 21 marzo Caterina smise di lottare.

Vicenda giudiziaria

Nonostante l’impegno nelle indagini dei carabinieri al comando del maresciallo Pale, comandante interinale della tenenza di Melito Porto Salvo e del maresciallo Marcianò, i colpevoli dell’omicidio di Caterina restano ancora senza un volto e senza un nome. Le indagini furono archiviate poco dopo per mancanza di elementi.

Memoria viva

La storia di Caterina è raccontata con grande impegno e fantasia nell’e-book Dalla violenza all’impegno dalla classe I A della scuola secondaria di primo grado dell’IC Murmura di Vibo Valentia all’interno di un percorso dell’associazione Libera.

Non conosciamo molto della vita di Caterina prima del suo omicidio. Vorremmo ricostruirla per permettere a tutti di conoscere che persona fosse, quali erano le sue passioni, i suoi progetti e i suoi sogni. Questo renderebbe il racconto su di lei più completo e la costruzione di una memoria collettiva sulla sua vicenda di vita sarebbe ancora più vitale.
 
Chiediamo, quindi, l'aiuto di chiunque possa darci il proprio contributo, condividendo con noi informazioni su Caterina Liberti.