Il 24 luglio del 1992, a cinque giorni dalla Strage di via D’Amelio, in un Paese ancora scioccato per la violenza inaudita messa in campo da Cosa nostra, il Consiglio dei Ministri guidato da Giuliano Amato autorizzò il primo intervento in grandi forze per ragioni di ordine pubblico effettuato dalle Forze Armate italiane nel dopoguerra. La chiamarono Operazione Vespri Siciliani, come la rivolta popolare scoppiata a Palermo il lunedì in albis del 1282 contro i dominatori Angioini. Momenti convulsi e drammatici, nei quali la risposta dello Stato con la presenza dei militari in Sicilia voleva testimoniare l’attenzione delle Istituzioni rispetto a quanto accadeva nell’isola. Tre giorni più tardi, i Prefetti siciliani si riunirono a Catania per discutere le modalità di impiego dei soldati inviati dal Governo. Ma quella sera la violenza della mafia insanguinò anche le strade di una città in cui l’ultimo delitto “eccellente” - quello di Pippo Fava - risaliva a 8 anni prima. Una città indifferente, in cui si faceva fatica a parlare di mafia, ma in cui almeno 7 commercianti su 10 alla mafia pagavano regolarmente il pizzo. Tutti sapevano, pochi parlavano, ancora meno facevano. E poi c’era chi sapeva, parlava e soprattutto faceva. Giovanni Lizzio era uno di questi.
Giovanni a Catania ci era nato, nel quartiere storico di via Garibaldi, il 24 giugno del 1947. Era cresciuto per le strade di quella città, coltivando sin da ragazzino il sogno di diventare poliziotto. E in effetti, a leggere la sua storia col senno di poi, è semplice riconoscere in lui un talento quasi naturale per quel lavoro, per l’attività investigativa. La sua carriera in Polizia cominciò molto presto a Napoli, dove fu destinato ancora molto giovane, prima di riuscire a fare rientro a Catania. Fu un passaggio chiave per Giovanni questo ritorno, perché in lui era sempre stato forte il desiderio di mettere a disposizione della sua città le sue competenze e la sua passione. Fu impiegato dapprima nella sezione omicidi, poi nel nucleo anticrimine e infine, nel 1991, nel nucleo antiracket della Squadra mobile, di cui divenne responsabile.
Era un poliziotto tutto d’un pezzo Gianni. Duro, inflessibile, determinato. Col tempo, aveva acquisito un’esperienza insostituibile per la Questura catanese. Conosceva rapporti, dinamiche, strategie della criminalità organizzata. Il fiuto e la capacità investigativa si sposavano a un metodo di lavoro che, grazie anche al rapporto con diversi collaboratori di giustizia, aveva garantito sempre ottimi risultati. Aveva anche molti nemici, naturalmente, finanche tra i suoi colleghi. Qualcuno non apprezzava i metodi di questo segugio, che a volte non andava tanto per il sottile. I numeri di operazioni, arresti, denunce erano inequivocabili. Come quando, il 18 luglio di quel 1992, aveva guidato un’operazione che aveva portato alla cattura di quattordici uomini del clan Cappello. O quando, senza alcuna remora, aveva denunciato per estorsione Giuseppe Pulvirenti, braccio armato del boss Nitto Santapaola, uno tra i più potenti e sanguinari boss mafiosi di Cosa nostra.
Deciso e determinato lo era anche in altri aspetti della sua vita. Già molto impegnato nelle attività di servizio, si era posto l’obiettivo della laurea, a cui aveva lavorato senza sosta, ritagliandosi il tempo per studiare nelle pause dal lavoro e nelle ore di libertà dal servizio, studiando anche in Questura. La laurea in Scienze politiche alla fine era puntualmente arrivata.
E poi c’era la vita privata, la sua famiglia, i suoi affetti. Con loro Gianni si mostrava più amorevole, più dolce, lasciandosi andare a gesti di tenerezza che fanno capolino nei ricordi delle sue due figlie. Grazia e Giuseppina erano state il frutto del suo amore con Annunziata Iacomino. Le feste di compleanno, le gite, le serate trascorse a giocare a carte. Ricordi normali di una vita normale. Sconvolta per sempre intorno alle 21.30 di quel maledetto lunedì 27 luglio del 1992.
Il 27 luglio del 1992
Una ventina di minuti prima, Gianni aveva lasciato gli uffici della Squadra mobile di piazza Santa Nicoletta. Si era messo alla guida delle sua Alfetta per fare ritorno a casa. Al telefono aveva sentito la sua primogenita: di lì a pochi minuti sarebbe rientrato. La macchina dell’ispettore Lizzio si avviò verso la periferia nord di Catania, verso il quartiere Canalicchio. Il semaforo rosso all’incrocio tra via Leucatia e via Pietro Novelli lo costrinse a fermarsi. Gianni non si era accorto che, dall’inizio del suo viaggio verso casa, c’era una moto a seguirlo, con a bordo due persone. Lo stop forzato al semaforo fu l’occasione che i killer aspettavano. Si avvicinarono all’auto ed esplosero sei colpi di calibro 38 attraverso il finestrino aperto. Uno solo andò a vuoto. Gli altri cinque colpirono l’ispettore alla testa e al torace. Gianni fu soccorso e caricato a bordo di un’ambulanza per essere trasportato al vicino ospedale Cannizzaro. Vi giunse già cadavere. Il giorno dopo avrebbe compiuto 45 anni. Le sue figlie avevano 20 e 16 anni.
Vicenda giudiziaria
Giovanni Lizzio fu il primo poliziotto a essere ucciso a Catania. A volerlo morto - se ne disse convinto il Questore sin dalle prime ore - era stata senz’altro la mafia. Le modalità del delitto e la ferocia dell’esecuzione, secondo gli investigatori, non lasciavano dubbi. Le indagini partirono subito, muovendosi naturalmente nell’ambito dell’attività professionale di Gianni. Tuttavia, la svolta arrivò l’anno successivo, grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Claudio Severino Samperi, che portarono all’arresto di 156 persone, tutte riconducibili al clan Santapaola. Tra loro, quelli che vennero considerati i mandati dell’omicidio dell’ispettore Lizzio: Nitto Santapaola, Giuseppe Pulvirenti, Calogero Campanella e Aldo Ercolano. Il movente sarebbe stato legato alla volontà di Cosa nostra catanese di punire Lizzio per il suo “attivismo” e, in particolare, per quella denuncia nei confronti di Pulvirenti. Ma dietro la sua morte ci sarebbe stata anche la volontà di allargare anche al territorio di Catania la strategia della tensione della mafia palermitana. Tutto questo mentre, proprio quel 27 luglio del ’92, i Prefetti riuniti a Catania decidevano come impiegare i soldati dell’Operazione Vespri Siciliani. Nel 1996 il processo contro i presunti mandanti si è concluso con la sola condanna all’ergastolo per Santapaola.
Qualche anno più tardi, nuove dichiarazioni dei pentiti Natale Di Raimondo e Umberto Di Fazio, riaprono le indagini, che questa volta si concentrano sugli esecutori materiali del delitto. I due collaboratori di giustizia si autoaccusano dell’omicidio. Ne nascono due processi, che si concludono con la condanna a 12 anni con rito abbreviato dei due pentiti e a 30 anni per Francesco Squillaci e Giovanni Rapisarda, poi assolto in appello. Nel marzo del 2009, finiscono assolti per insufficienza di prove anche Filippo Branciforte e Francesco Di Grazia, che, secondo l’accusa, avrebbero fatto parte del commando.
Memoria viva
Il 28 luglio del ’92, nella cattedrale barocca di Catania, si erano svolti i funerali di Giovanni Lizzio, alla presenza di circa 2000 persone ma senza alcun rappresentante delle Istituzioni. Alla sua morte, in alcune famiglie di mafia si sarebbe stappato vino e spumante.
Ricordo ancora la prima volta che sentii parlare di nonno Gianni. Dopo una lezione alle scuole medie, tornai a casa e quando lo raccontai a mia madre senza troppi giri di parole, ma con molta pacatezza, mi disse che il mio nonno era diventato un bellissimo angelo perché delle persone brutte lo hanno ucciso. A dir il vero non avevo capito molto le sue parole, quindi andai nella mia stanza e digitando sul mio computer “Giovanni Lizzio” iniziai a capire. Da lì ho iniziato un processo che ancora non è terminato, ovvero quello della metabolizzazione del dolore. Eppure gli anni passavano e quel ragazzino delle medie cresceva e di suo nonno non ne parlava. Ho atteso prima di potermi esporre perché volevo capire chi fosse nonno Gianni e l’ispettore Lizzio. Capire chi fosse nonno è stato subito possibile grazie ai racconti della famiglia Lizzo composta da nonna Titti, che mi racconta tutt’oggi cosa piaceva fare al nonno: dalla gita in montagna alla giocata a carte con gli amici, da mamma Giusi e zia Grazia che mi hanno sempre descritto il loro papà in maniera amorevole e gioiosa, con le serate passate insieme e tutte le feste di compleanno. Purtroppo non poter avere dei ricordi con il mio nonno mi suscita tanta rabbia e amarezza. Ma la vita continua ad andare avanti e io cerco un modo per sorriderle nonostante questa grande perdita. Il lato dell’ispettore Lizzio è stato senza dubbio il più complesso. A lavoro era una persona determinata che cercava di fare bene il suo lavoro. In effetti ci riusciva perché alla Squadra Mobile di Catania incassava ottimi risultati arrestando malavitosi importanti. Sicuramente, in questo grande puzzle dove inserire i tanti pezzi mancanti, è stato fondamentale sentir parlare il dott. Sebastiano Ardita che, attraverso i suoi racconti, mi ha confermato il grande impegno del mio grande nonno. Purtroppo la mia famiglia, come tante altre che hanno subito una perdita importante, non sarà più la stessa, perché il dolore ci sarà sempre in quanto loro superstiti di un atroce dolore. Ma ho capito anche che i nipoti, come me, sono testimoni indiretti con un grande compito sulle spalle: continuare a fare memoria. Io sono sicuro che il mio nonno è sempre con me a darmi forza e a supportarmi in ogni singola scelta.
Accanto alla testimonianza dei suoi familiari, un murales all’esterno del carcere di Piazza Lanza, qualche strada, un parco e due targhe - negli uffici della Squadra mobile di Catania e nella caserma Cardile della Polizia di Stato - tengono viva la memoria di questo poliziotto che amava il suo lavoro e lo faceva bene. Nel giugno del 2017, Grazia ha portato la sua voce sugli schermi di Rai2, con un intervento nella puntata di fine stagione della trasmissione Nemo - Nessuno escluso. Quella sera vide in faccia per la prima volta uno degli assassini di suo padre, ergastolano nel carcere di Opera.