Rita Atria, 25 anni dopo
di Cristiana Mastronicola
A Roma faceva caldo quella domenica del 26 luglio del 1992. Di quel caldo che ferma le vite e le lascia sospese, sedate. Nel cuore della città, in via Amelia, una ragazza, poco più che adolescente, spezzava quella domenica assopita e si gettava dal settimo piano di uno dei palazzoni alti del quartiere tuscolano. Solo una settimana prima, a spezzare un’altra domenica asfissiante, a Palermo, era stata la bomba che aveva ucciso Paolo Borsellino. Quella bomba che svegliava l’Italia tutta, la sconvolgeva e la coinvolgeva definitivamente nei fatti che straziavano la Sicilia. A legare le due vite una linea sottile e robusta. Rita Atria aveva 17 anni e la sete di giustizia. Sete riposta, tutta, nella valigetta del giudice buono, “unica speranza”. Era testimone di giustizia, la “picciridda”. Figlia di mafiosi, aveva ripudiato le sue origini e si era messa contro la sua famiglia. Proprio come aveva fatto Piera, la cognata di Rita, l'unica in casa a sostenere quella scelta. Aveva parlato, Rita, aveva tradito le sue radici e denunciato la mafia. Quella che aveva visto e riconosciuto con gli occhi di bambina, quella che aveva ucciso il papà e il fratello. Quella che avrebbe ucciso il suo giudice, pure. A Roma era arrivata perché andava protetta, Rita. A Roma moriva perché a Palermo moriva Borsellino. Sola. Perché nessuno, come Paolo, aveva preso le sue mani piccole accompagnandola durante quella giovinezza, fragile e indistruttibile insieme. Indistruttibile come la speranza che l’aveva sempre scortata, coraggiosa, nella strada che aveva scelto, impraticabile e impraticata dai più. Quella stessa speranza Rita l’aveva appuntata con meticolosa chiarezza sul suo diario. diario di adolescente cresciuta troppo in fretta, diario di donna caparbia, sicura, incrollabile. Come l’idea di antimafia che quella vita spezzata ci lascia sulla pelle, ancora oggi, venticinque anni dopo.
di Federica Olivo
Nella provincia siciliana dell’inizio degli anni ’90, ribellarsi alla mafia era un’anomalia. Che una ragazzina scegliesse di raccontare quello che sapeva alla magistratura, era quasi impensabile. Se, però, la mafia ammazza tuo padre e tuo fratello, l’impensabile può diventare realtà.
Quando decise di parlare con Paolo Borsellino, Rita Atria aveva solo 17 anni. Bussò alla porta del giudice e, con precisione, spiegò tutti i dettagli dell’ambiente malavitoso di Partanna, paese in provincia di Trapani in cui era nata. Ricordava tutte le confidenze che le aveva fatto il fratello Nicola, ucciso a nel 1991. Dopo l’omicidio del padre Vito, si era legata molto a lui.
Rita scelse la strada della giustizia, contro tutto e tutti. Contro sua madre, innanzitutto. Dalla sua parte però, oltre alla cognata, c’era lui, il “giudice dai baffi gentili”. Proprio la strada della giustizia la portò a Roma. Finalmente in città, sperimentò una libertà mai provata. E con la libertà, la speranza di vivere in un mondo più giusto. Proprio di questo scrisse nel suo ultimo tema. Era la fine di giugno del 1992 e la speranza sparì poche settimane dopo.
La morte del giudice Borsellino per Rita fu un colpo insuperabile. L’uomo che l’aveva ascoltata e protetta non c’era più. Si sentì sola.
La vita di questa ragazza ribelle e coraggiosa finisce così, con un lancio dal settimo piano di un palazzo sulla Tuscolana, il 26 luglio 1992. In quel palazzo avrebbe voluto ricominciare a vivere, avendo come cornice una città lontana dalla Sicilia, ma non abbastanza da eliminare dalla sua vita il peso dell’ingiustizia.
Dopo 25 anni, ricordare la sua storia e il suo coraggio non vuol dire solo commemorare. Significa aggiungere altri tasselli alla costruzione di quel mondo onesto, in cui Rita tanto sperava e che ha contribuito a creare, schierandosi, con fierezza, dalla parte della verità e della giustizia.