Parole di memoria

Noi non archiviamo Ilaria e Miran

Noi non archiviamo Ilaria e Miran

di Lorenzo Frigerio *

Quando sfoglierete le pagine di questo numero di «Narcomafie», potrebbe anche essere che il lun­ghissimo iter processuale, riguar­dante il duplice omicidio in terra somala di Ilaria Alpi e Miran Hro­vatin avvenuto oltre due decenni fa, abbia conosciuto un’ulteriore e definitiva battuta d’arresto.

Noi ci auguriamo che la triste vicenda dei due colleghi, giusti­ziati senza scampo mentre face­vano il loro lavoro, non sia archi­viata definitivamente dalla giusti­zia italiana, prima che siano indi­viduati i colpevoli.

Il motivo principale per cui dedi­chiamo la nostra rivista alla storia di Ilaria e Miran, risiede proprio nel desiderio di verità e giustizia che ha spinto ad andare avanti in tutti questi anni le loro famiglie, nella speranza, a volte flebile, a volte tenace, di trovare quelle ri­sposte che finora non sono arri­vate.

Alla giusta volontà dei familiari di sapere perché i loro cari furono giustiziati in quel modo brutale, si aggiunge poi l’ormai maturata consapevolezza che quanto avven­ne a Mogadiscio il 20 marzo del 1994 non sia soltanto un pezzo di storia polverosa, più adatto a una ri­visitazione romanzesca dei fatti o alle ricerche d’archivio di studenti o lau­reandi.

Siamo certi piuttosto di trovarci davanti al tassello fondamentale di un puzzle ben più complesso, capace di restituirci, una volta che dovesse essere finalmente com­pletato, un intricato panorama di traffici di armi, rifiuti tossici e chissà cos’altro, portati avanti sot­to la copertura ufficiale della co­operazione internazionale.

Il caso Alpi-Hrovatin, infatti, è l’incubatrice di questioni ataviche mai risolte, che incrociano realtà ben diverse tra loro, eppure sem­pre dialoganti, come la politica, l’economia, la criminalità organiz­zata.

L’elenco è lungo, ma mini­mamente esaustivo del cupo af­fresco che emerge dalle carte dei tribunali e delle Commissioni parlamentari che si sono occupa­te, direttamente o indirettamente, dell’uccisione dei due colleghi del Tg3: il rapporto di sfruttamento con i paesi dell’Africa, oggi sfo­ciato drammaticamente nelle rot­te del Mediterraneo, che vedono i migranti in fuga dai loro paesi d’origine; la corruzione delle vo­lubili élites politiche locali, che ha causato il progressivo depau­peramento di territori ricchi di materie prime dall’alto valore commerciale e perciò sottoposti a sfruttamento intensivo; l’illegale e selvaggio smaltimento di sostan­ze e di rifiuti espulsi dal nostro paese e dall’Europa, che hanno fatto del continente africano una delle più grandi pattumiere del pianeta; il traffico internazionale di armi e, parallelo a questo, lo sfruttamento delle rotte subsaha­riane per il narcotraffico, due tra le voci più importanti dei bilanci delle grandi organizzazioni criminali, a par­tire proprio dalle mafie nostrane.

Insomma siamo convinti – ma siamo in buona compagnia – che Ilaria e Miran posarono i loro oc­chi su qualcosa di veramente e­splosivo, che finì per schiacciarli inesorabilmente: non furono uc­cisi, perché quel giorno decisero di fare i “turisti per caso”, come oscenamente fu dichiarato in sede di Commissione parlamentare d’inchiesta.

L’esecuzione di Mogadiscio è un vulnus al nostro Paese che potrà rimarginarsi solo se ne saranno individuati mandanti ed esecuto­ri, ma giunti a questo punto, dopo venticinque anni, abbiamo anche il diritto – insieme alle famiglie Alpi e Hrovatin – di sapere “chi” e “perché” decise di depistare le indagini. E soprattutto “in nome di chi”.

Crediamo, infatti, che la vicenda dei due giornalisti del Tg3 chiami in causa precise re­sponsabilità che albergano all’in­terno delle istituzioni. Vogliamo sapere a quale catena di comando e a quale logica obbedirono gli uomini che misero in atto ritardi e depistaggi che ci allontanarono dalla verità. Vogliamo sapere, per­ché li consideriamo colpevoli alla stessa stregua di chi diede l’ordine di uccidere e di chi sparò sotto il sole di Mogadiscio.

In questa ricerca continuano a essere idealmente al nostro fianco due col­leghi di Ilaria e Miran, che non si stan­carono, tanto all’interno del ser­vizio pubblico quando lavoravano in Rai, quanto alla guida di Libe­ra Informazione negli ultimi anni, di chiedere verità e giustizia per loro: Roberto Morrione e Santo Della Volpe, di cui riportiamo due scritti, a futura memoria di un impegno che viene da lontano e che ha incrociato fin dall’inizio anche il percorso di Libera, sem­pre dalla parte dei familiari.

Racconti di Ilaria e di Miran e, purtroppo, quasi inevitabilmente il pensiero corre ad altri giornali­sti che hanno perso la loro vita in questi ultimi mesi, non in Africa, ma nel cuore dell’Europa.

Sicuri che il sottile filo rosso del­la verità li colleghi stabilmente tra loro, ripercorriamo in questo numero la storia di Daphne Ca­ruana Galizia, fatta saltare in aria nella sua Malta, proprio quando stava svelando corruzioni e traf­fici e di Ján Kuciak, giornalista slovacco, ucciso insieme alla fidanzata Martina Kušnírová, al culmine di un’inchiesta che sta­va svelando le collusioni della politica locale con uomini della ’ndrangheta.

Anche per loro non ci stanche­remo di chiedere verità e giusti­zia, anche per loro vale quello che vogliamo ribadire ad alta voce per Ilaria e Miran: noi non archiviamo!

 

* Editoriale di Narcomafie 2/2018